ArtEconomy24

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

«Artitetto» lo definisce Achille Bonito Oliva con una delle sue piroette semantiche, condensando in una sola parola le passioni di Piero Sartogo. Architetto e collezionista, amico di tanti artisti, critici, curatori, galleristi internazionali, Sartogo ha sempre amato intrecciare l'architettura con l'arte, «perché l'arte ha una velocità fulminante, una carica eversiva che l'architettura non può avere, gravata com'è da problemi di budget, di tecnologie, di materiali. L'arte invece insegue il futuro», dice. Così in ogni suo progetto chiama a collaborare uno o più artisti: dieci addirittura (Carla Accardi, Uncini, Mattiacci, Paladino, Dynys...) nella chiesa del Santo Volto alla Magliana, del 2006. Lo fa da sempre, sin dal 1968, quando con Fabio Mauri e Gino Marotta, Furio Colombo e Antonio Malavasi, presentò in Triennale a Milano il progetto Autre Nave, che con i suoi inganni destabilizzanti prefigurava l'assenza di gravità dell'ormai prossimo sbarco sulla Luna.
Dieci anni del suo lavoro, da Autre Nave alla celebre mostra Roma interrotta, ideata e realizzata nel 1978 per gli Incontri Internazionali d'Arte, sono al centro della rassegna che il MAXXI gli dedica in occasione della sua donazione al museo (con Gabriella Buontempo) delle 122 tavole che componevano quella mostra passata alla storia, promossa dal formidabile motore di cultura degli Incontri di Graziella Lonardi Buontempo.
La mostra attuale (un'installazione essa stessa), curata dal compagno di tante avventure Achille Bonito Oliva, si apre proprio con la rievocazione di Roma interrotta, rassegna che dopo i Mercati Traianei ha attraversato il mondo, dal Pompidou all'Architectural Association di Londra, dalla Biennale di San Paolo a quella di Venezia. Alla base, un'idea tanto utopica quanto geniale: muovendo dalla grandiosa pianta di Roma in 12 tavole, incisa nel 1748 da Giovanni Battista Nolli per Benedetto XIV, che raccontava la città com'era allora, con i suoi pieni e i suoi (tanti) vuoti urbani, se ne assegnava una tavola a 12 famosi architetti (Costantino Dardi, Antoine Grumbach, James Stirling, Paolo Portoghesi, Romaldo Giurgola, Robert Venturi, Colin Rowe, Michael Graves, Leon Krier, Aldo Rossi, Robert Krier e lo stesso Sartogo), invitandoli a ideare nuovi edifici sui vuoti di allora, come se nulla nel frattempo fosse accaduto: cancellati gli scempi perpetrati su quel tessuto urbano antico e magnifico dall'età postunitaria, dal fascismo, dalla (quasi sempre impresentabile) ricostruzione postbellica dei "palazzinari", scaturiva l'immagine di una città visionaria e fantastica, irrealizzabile e irrealizzata, ma densa di segni fascinosi sul piano concettuale e visivo.
Nella sezione successiva lo sguardo si appunta invece sul Sartogo architetto e sugli artisti, tutti concettuali, con cui ha lavorato, spesso creando anche il coordinamento del l'immagine di mostre passate alla storia: come Vitalità del negativo, altro famoso progetto di Graziella Lonardi, curato da Bonito Oliva, per il quale Sartogo stravolse lo spazio del Palazzo delle Esposizioni di Roma spezzandolo virtualmente in altezza tra luce e buio, positivo e negativo, e proiettando sui pilastri le ombre dei visitatori nella stessa scala delle colonne, fino a creare un luogo inedito, frutto di stimoli percettivi sapientemente distorti.
A dettare i percorsi, ortogonali, di questa sezione della mostra attuale sono da un lato i quattro principi (Percetto, Segno, Immagine, Virtuale) che Sartogo aveva adottato con Joseph Kosuth per la propria personale all'Istituto Nazionale di Architettura nel 1977, dall'altro la giustapposizione tra la propria architettura e il lavoro dei "suoi" artisti, che al centro si intersecano nei loro incontri creativi. Scorrono così gli scambi con Daniel Buren mentre l'architetto lavorava al progetto del Centro Ice di Park Avenue e quelli con Fabio Mauri (in mostra c'è anche Luna, l'ambiente esposto a Vitalità del Negativo); il progetto rivoluzionario per la mostra Contemporanea che, scandita da reti via via più fitte, si dilatava su quasi un ettaro nel parcheggio coperto di Villa Borghese; la soluzione minimale e geniale per l'allestimento dell'affollato padiglione italiano della Biennale di Venezia del 1978, giocata sin d'allora sulla virtualità, così come l'intervento sull'abitazione di Nicola Bulgari in Park Avenue, con Paolini e Kosuth. E la soluzione, impagabilmente provocatoria, ideata con Gianni Colombo (in mostra anche il suo Spazio Elastico) per il quartiere Gescal di Sesto San Giovanni: torri di edilizia popolare che non obbedivano all'allora ineludibile diktat ideologico del grigiore penitenziale ma erano attraversate da linee secanti oblique, da piani inclinati bianchi e neri che dematerializzavano gli edifici per ricomporli, se visti dal viale centrale, in corpi più vasti, rendendo l'architettura elementare delle torri un'entità mobile, fluida, perfino giocosa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tra/Between Arte e Architettura, Roma, MAXXI, fino al 21 settembre www.fondazionemaxxi.it

© Riproduzione riservata