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In Primo Piano

Internet non è solo l'euforia del mondo a portata di click; il suo funzionamento, basato sull'estensione illimitata della rete, implica una cultura (e soprattutto una pratica) della condivisione che il gergo informatico traduce oggi con la parola crowd-sourcing. L'open source è un mare infinito pieno di pesci (ma anche, naturalmente, di rifiuti) dove ogni giorno ognuno può trovare la propria rappresentazione, aprendo lo spazio vitale per azioni di gruppo: dalla primavera araba ai Fab Lab, a Wikipedia.
Ma, se è intuitivo comprenderne le implicazioni nel campo delle comunicazioni immateriali, meno immediato è coglierne le implicazioni nella realtà dello spazio fisico, il passaggio dalla diffusione digitale alla materializzazione in un mondo di oggetti e persino di architetture.
Per mettere in chiaro come oggi lo scarto tra informazione e fisicità sia se non scomparso, molto attenuato, Carlo Ratti ha scritto un pamphlet agile e discorsivo cui ha dato un sottotitolo dall'eco assai significativo: Verso una progettazione aperta. Per un architetto il richiamo è immediato: al Verso un'architettura del giovane Le Corbusier, all'inizio del secolo scorso; all'architettura integrata del più maturo Gropius o al Verso un'architettura organica del duo Zevi-Wright.
D'altra parte Ratti è un architetto imprestato all'informatica e dunque il campo di verifica dell'incontro tra digitale materiale non poteva essere che l'architettura: o meglio la pratica del progetto, visto che è proprio l'architettura intesa in maniera tradizionale a essere chiamata a difendersi alla sbarra della storia. La cultura della rete porta con sé un cambio di paradigma cui non siamo ancora del tutto preparati: o forse non siamo pronti ad accettarne le conseguenze, che spesso comportano il rischio di buttare il bambino con l'acqua sporca. Il punto di partenza è , al solito, un «j'accuse»: il dito di Le Corbusier puntato in aria come quello di un profeta, cui Ratti contrappone l'immagine dell'anonimo dito sul mouse dell'utente collettivo del web. In mezzo tutte le travagliate vicende di un secolo che ha sperimentato l'impossibilità di sottrarsi alla tirannia del progetto e allo stesso tempo le contraddizioni di un atto che ha sempre stentato a tenere il passo ai cambiamenti delle società. L'"architetto prometeico" è il primo eroe della Modernità: sfida le convenzioni, vaticina il futuro e – l'accusa – si dimentica il presente, o meglio lo sottopone allo stress di una visione troppo orientata sulla centralità dell'autore. È forse la parte più debole della tesi del libro, che sembra ricalcare la provocazione conservatrice di Tom Wolfe (From Bauhaus to our House) e, in generale, la diffidenza dell'opinione comune verso le stramberie degli architetti: cioè, in definitiva , delle avanguardie.
Ma il clima del Dopoguerra è già pronto al disgelo di nuove idee che intellettuali, artisti ed architetti portano a fermentazione nella previsione di una civiltà dove la cibernetica (anche se in forma aurorale) comincia ad aprire la perentorietà del "pensiero unico" dell'architetto all'imprevedibilità del caso, dell'azione collettiva, della trasformazione permanente. Cedric Price, i Metabolist, gli "azionisti" alla Debord, eccetera, anticipano un'idea di progetto come trama e come processo, cui molto più tardi, internet sembra aprire la strada di una concreta attuazione. Ma, lungi dal configurarsi come un cimitero delle buone intenzioni, questa storia rappresenta il contrario: cioè la necessità intellettuale della profezia (se si vuole dell'utopia) e lo scotto della realtà che fatica a star dietro al profeta.
L'immagine del "progettista collettivo" – oggi incarnata da Wiki-house – è ricorrente nel XX secolo e non solo, visto che Chipperfield l'ha messa al centro della sua Biennale del "Common Ground". Ma , l'abolizione del "diritto d'autore" nella logica dei social network non corre il rischio di una "dittatura del proletariato" senza spargimenti di sangue? Se lo scenario disegnato dal libro è condivisibile nella sua utopia di una progettazione consapevole dei diritti degli utenti, molti suoi passaggi chiedono una più sofferta meditazione: soprattutto se si considera che la stessa parola Architettura significa molte più cose di quanto la sua caricatura mediatica può far supporre. Che questa distorsione avvenga proprio nel campo della comunicazione condivisa deve farci riflettere sull'utilità e il danno di internet per la vita.
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Carlo Ratti, Architettura Open Source. Verso una progettazione aperta. Einaudi, Torino, pagg. 144, € 11,00

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