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In Primo Piano

Che Papa Pio VI fosse proteso a incrementare i Musei Vaticani, ragion per cui venne subissato di accuse mosse dal fronte anticlericale, è cosa nota. Meno risaputo è che, quando venne a conoscenza del fatto che a Città di Castello una pala d’altare di Raffaello era stata gravemente danneggiata dal terremoto, si affrettò ad acquistarla (a caro prezzo), e la fece tradurre a Roma. Anche su questo episodio piovvero critiche e insinuazioni. Non è ancora del tutto chiaro se l’insigne tavola, detta Pala Baronci dal nome del committente, commissionata a Raffaello diciassettenne nel 1500, giunse a Roma intera, oppure già sezionata nelle parti meno guaste. Per analogia con altri casi, è probabile che vi fosse arrivata al completo, indi fosse stata tagliata, ma in quanti frammenti non mi risulta sia mai stato specificato. Varrebbe la pena approfondire le ricerche negli archivi vaticani, al fine di verificare quanti fossero i frammenti recuperati. Nel 1798 le truppe napoleoniche saccheggiarono Roma; nel frattempo i lacerti Baronci erano stati rifugiati in San Luigi dei Francesi, ma anche tale ricovero non riuscì a frenare le razzie napoleoniche. A questo punto siamo edotti circa il trasferimento a Napoli del Padre eterno e della Vergine adorante, mentre dei due Angeli, l’uno oggi nella pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, l’altro al Louvre, si hanno notizie, rispettivamente, a partire soltanto dal 1821 e dal 1981. Il primo entrò nella collezione bresciana del conte Paolo Tosio, il secondo venne segnalato a una studiosa di Raffaello, Sylvie Beguin, da un tassinaro parigino, nipote di una monaca di clausura che l’aveva ricevuto in eredità. L’Angelo del tassinaro venne subito acquisito dal Louvre.

La ricostruzione della Pala Baronci, prima opera pubblica di Raffaello, detentore della bottega che era stata di suo padre, Giovanni Santi, e fregiato del titolo di «magister» nonostante la giovanissima età, si basa sulla descrizione delle fonti storiche e sulla copia di un modesto pittore marchigiano Ermenegildo Costantini, che, all’atto del passaggio dell’originale a Roma, per non sguarnire la chiesa di Città di Castello di simile capolavoro, fu incaricato di sostituirlo con una mesta derivazione. Esistono poi alcuni disegni autografi di Raffaello raffiguranti particolari, e uno stupendo foglio di mano dell’urbinate, double face, oggi nel museo di Lille, che attesta non tanto la fase definitiva del dipinto, bensì una intermedia, come il sommo pittore-disegnatore era solito fare.

Disegno e tavole superstiti sono esposti molto bene a Brescia in una mostra curata da Bolpagni, Lucchesi Ragni, con D’Adda. Si vocifera che manchi un ultimo lacerto, di raccolta privata, ma nessuno sinora ha prodotto le prove della sua reale esistenza.

Il Padre eterno e la Vergine Maria, di un livello qualitativo inferiore ai due Angeli, potrebbero essere frutto della collaborazione di Raffaello con Evangelista da Pian di Meleto, maestro marchigiano minore, del quale non si posseggono opere autonome. Evangelista s’era fatto le ossa nella bottega di Giovanni Santi. Doveva essere persona fedelissima e aiutare il genio adolescente di Urbino, sulla cui formazione studi recenti seguitano a discettare - un po’ pedantemente – riguardo a chi avesse esercitato maggior incidenza: il padre Giovanni oppure il Perugino? L’adunata bresciana dei frammenti Baronci favorisce la conclusione che entrambi i pittori, il Santi e il Perugino, avessero giocato un ruolo determinante, vista la severità santiana dell’Angelo del Louvre, e la morbida fluidità peruginesca di quello Tosio. Se le teste rubiconde e pressate dei cherubini che attorniano l’Eterno sono di fattura corsiva, da addebitarsi forse a Evangelista, la durezza nodosa delle mani potrebbe testimoniare un influsso di Luca Signorelli. Dati rivelatori di come, nel 1500-1501, Raffaello stava ormai marciando verso la maturità ed era pronto a spiccare il volo.

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Raffaello opera prima, Brescia, Museo di Santa Giulia; sino al 6 aprile. Catalogo Sagep

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