ArtEconomy24

Parla Sam Stourdzé: “tre anni per dare un futuro ai Rencontres…

  • Abbonati
  • Accedi
Mercato dell'arte

Parla Sam Stourdzé: “tre anni per dare un futuro ai Rencontres d'Arles”

  • –di Sara Dolfi Agostini

Dopo 13 anni Les Rencontres d'Arles, la più prestigiosa piattaforma festivaliera dedicata alla fotografia, ha cambiato direttore. E non è stato un passaggio indolore. Quando qualche anno fa l'ex direttore François Hébel ha annunciato le dimissioni per protestare contro la svendita, per 6 milioni di euro, come scritto da ArtEconomy24 , alla Fondazione Luma dei Parc Des Ateliers, che accoglievano gran parte delle mostre, la lunga storia di questo festival fondato nel 1970 sembrava giunta al capolinea. Tuttavia, forse non tutto è perduto: ne abbiamo parlato con il neodirettore Sam Stourdzé, che per dedicarsi alla causa ha lasciato il Musée de L'Elysée di Losanna e pochi giorni fa ha inaugurato la sua prima edizione del festival con 35 progetti espositivi, un parterre di quasi 40 curatori coinvolti a vario titolo nel programma e un pubblico di professionisti del settore che ha segnato le 13.500 presenze. Un'edizione che non solo ha offerto la qualità di sempre, ma che ha raccontato anche una nuova prospettiva sulla fotografia italiana attraverso mostre e premi per Discipula, The Cool Couple, Paola Pasquaretta e Piero Martinello.

Parliamo di continuità e cambiamento, come ha assunto il compito della direzione artistica dei Rencontres d'Arles dopo l'abbandono di François Hébel?
La continuità è assicurata: i Rencontres d'Arles restano un festival di fotografia, e di questi tempi è già un'ottima notizia! Come sa, il festival è stato creato 46 anni fa dal fotografo Lucien Clergue e diretto da molti curatori prestigiosi – tra cui appunto Hébel – che lo hanno reso l'appuntamento festivaliero più importante al mondo. Non ha senso cambiare tutto ciò, bisogna piuttosto renderlo più forte. In altre parole, questo è e resta il più grande festival dedicato ai fotografi, ma sarà mia premura che diventi anche il festival dei curatori. Il mestiere del curatore è importantissimo per offrire una dimostrazione visiva e una cornice concettuale alla fotografia storica e contemporanea; è difficile apprenderlo in modo teorico, servono pratica, occasioni di incontro e produzione.

Come si inserisce questa dichiarazione programmatica nella sua prima edizione del festival?
Indosso tanti cappelli a capo dei Rencontres d'Arles; soprattutto, sono responsabile della direzione artistica e ho intenzionalmente aperto la curatela di questa edizione a professionisti esterni, tra cui Simon Baker, direttore del dipartimento fotografico della Tate Modern di Londra , il curatore e collezionista inglese David Campany , Martino Stierli, direttore del dipartimento di architettura al MoMA di New York , e Christine Barthe, a capo delle collezioni fotografiche del Musée du Quai Branly di Parigi . Ma anche a curatori più giovani e ancora sconosciuti al grande pubblico, che ad Arles hanno la possibilità di lavorare come in un laboratorio e sperimentare con progetti espositivi inadatti alle istituzioni per cui lavorano. Insieme abbiamo organizzato trentacinque mostre, e ci siamo presi dei rischi che i musei non possono permettersi.


Nella direzione di Hébel, che ha guidato i Rencontres d'Arles per 13 anni, tutto il programma espositivo - inclusi premi e sezioni specifiche - era tenuto insieme da un tema portante. L'ultimo è stato il ritorno della fotografia in bianco e nero. Qual è il file rouge di questo festival?
Non credo che il festival possa stare sotto un unico ombrello tematico, è troppo grande e importante. Per questo ho preferito costruire delle sequenze, o meglio delle rubriche, che permettono di seguire più da vicino le evoluzioni della fotografia. Arles è un luogo che ha sempre mostrato la fotografia più storicizzata, e non è giusto privarsi di questo approccio più tradizionale. Quindi lo manteniamo, però nell'idea di rileggerlo e riscoprirlo in modo inedito, come nelle mostre monografiche di Walker Evans e Stephen Shore. Poi c'è un palinsesto espositivo più orientato verso la contaminazione e il dialogo con altre discipline artistiche: per quest'anno ho scelto l'architettura, il cinema e la musica. L'anno prossimo si potrebbe decidere di aprire a scultura o danza. I temi sono molto ampi.

Questo tema della contaminazione è assai sentito nel dibattito internazionale sulla fotografia, e presente anche tra i giovani fotografi italiani invitati dal curatore di Camera (camera.to), Francesco Zanot, al Prix Découverte des Rencontres d'Arles: tanto Paola Pasquaretta quanto The Cool Couple si relazionano alla scultura e alla performance. Cosa offre, invece, la sua rubrica?
La nostra presentazione propone tante piste, spesso condivise con musei come il Centre Pompidou e il MoMA (moma.org). Abbiamo l'architettura postmoderna con la mostra dedicato all'archivio fotografico di Robert Venturi e Denise Scott Brown, ma anche la musica, con la grande esposizione Total Records, che racconta le frequenti incursioni dei fotografi nel mondo della musica attraverso illustrazioni e copertine di LP da collezione. La contaminazione con altri mondi è certamente una modalità operativa prioritaria per molti fotografi oggi. La storia della fotografia è in continua evoluzione ed è mia precisa volontà trattare il festival come una cassa di risonanza per queste pratiche fotografiche, che ci mettono in contatto con la Fondazione Luma, dedicata all'arte contemporanea, ma anche con gli altri musei e le accademie.

Come si è relazionato al pubblico di Arles?
Un festival non è un museo: un festival è un palinsesto di mostre che si sviluppano una accanto all'altra e si offrono ai visitatori appassionati e ai professionisti del settore, che nella settimana di inaugurazione sono storici della fotografia, critici, conservatori, fotografi, photoeditor, agenzie e molto altro. Ad Arles arrivano in settantamila ogni anno, dobbiamo tenere conto di chi sono e cosa cercano qui. Ci sono due modi di relazionarsi a questi pubblici: o si concepiscono mostre blockbuster per tutti e progetti specifici per gli specialisti, oppure si studiano dei soggetti che offrono al loro interno diverse possibilità di lettura e interpretazione, e io credo che mostre come quelle più storiche di Walker Evans, Stephen Shore e Martin Parr o interdisciplinari come i re-enactment di John Malkovich in collaborazione con Sandro Miller o Total Record corrispondano a questo sentire.

Questa ampia programmazione ha potuto beneficiare di un nuovo accordo con il Comune di Arles per sostituire il Parc des Ateliers, venduto alla Fondazione Luma per la costruzione della sua nuova sede, opera di Frank O Gehry. Un accordo che sembrava impossibile quando Hébel ha annunciato le sue dimissioni. Mi racconta cosa ha fatto e cosa sta facendo in questo senso?
Certo. Anzitutto ho rimesso al tavolo di negoziazione tutte le parti, dal Comune di Arles alla Fondazione Luma. La situazione era complicata, era in atto un blocco e il dialogo sembrava ormai compromesso. Così facendo, per questa edizione sono riuscito ad avere in uso i quattro padiglioni ancora in piedi del Parc des Ateliers, che nel 2016 saranno usati dalla Fondazione Luma per mostrare la propria collezione. Inoltre, ho ottenuto un nuovo spazio di archeologia industriale, una cartiera, che potrò usare anche il prossimo anno. A breve termine, dunque, il festival è salvo; ma il suo futuro è ancora estremamente incerto. Sto lavorando ogni giorno per trovare delle soluzioni.

Il suo impegno è ammirabile, ma chi glielo ha fatto fare di lasciare un contesto di prestigio e continuità come il Musée de L'Elisée per gestire questo ginepraio?
Les Rencontres d'Arles è il più importante festival di fotografia al mondo e nessun museo può garantire la libertà di sperimentazione che c'è qui. È unica. È una sfida che ho deciso di raccogliere senza sapere se riuscirò nella mia impresa. Mi sono dato un triennio e valuterò il mio contributo sulla base di tre criteri: anzitutto, la direzione artistica, che deve offrire una qualità senza compromessi. Quindi, il budget: anche quest'anno ho ottenuto 6,3 milioni di euro, la metà circa provenienti dagli introiti del festival, il resto da sponsorizzazioni pubbliche e private. Ogni anno, il budget deve essere rinegoziato e confermato. Il terzo criterio riguarda, appunto, gli spazi. Quest'anno sono riuscito a salvare 20.000 metri quadri di spazi espositivi, ma sto già lavorando per l'anno prossimo. Se uno di questi criteri viene meno, l'intero festival si incrina. Il mio compito è costruire una base solida e il più possibile duratura.

Vai alla fotogallery

© Riproduzione riservata