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economia e beni culturali

Primo G7 Cultura: «una nazione è viva quando la sua cultura è viva»

Il “primo G7 Cultura della storia” si è svolto a Firenze tra il 30 e il 31 marzo. All'occasione, i Ministri dei beni culturali di Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti, nonché alti rappresentati di UNESCO, UNODC, UNIDROIT, INTERPOL, Commissione Europea, Consiglio d'Europa, ICOM e ICCROM si sono riuniti su invito del Ministro italiano dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, per riflettere sul tema della cultura come strumento di coesione e dialogo fra popoli.
Tre tranche: tecnica, ministeriale ed “intellettuale” hanno scandito i lavori delle delegazioni convenute presso il capoluogo fiorentino.

Il dibattito. Le discussioni relative alla prima delle tre tranche sono cominciate giovedì mattina, presso la Sala Bianca di Palazzo Pitti, e sono proseguite senza interruzione sino all'ora di pranzo. In quella sede, esperti ministeriali, giuristi ed archeologi si sono confrontati sui temi delle regolamentazioni esistenti per la protezione del patrimonio a rischio, strategie di prevenzione e lotta contro il traffico illecito di beni culturali e sul tema centrale dell'educazione.
All'alba della recentissima Risoluzione 2347 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata all'unanimità lo scorso venerdì, si è tornati ancora a parlare di distruzione e di spoliazioni di città irachene e siriane, di traffico illecito di oggetti d'arte, usati dallo Stato Islamico come vile mezzo di finanziamento di attività terroristiche. Si è parlato ancora della storica sentenza del settembre scorso emessa dalla Corte Penale Internazionale contro le distruzioni del patrimonio maliano condannate come “crimini di guerra”.

Ciò che si rileva dalle sessioni tecniche è la necessità di allargare la giurisdizione della citata Corte per permettere la persecuzione dei reati contro il patrimonio non solo pendente bello, ma anche in tempo di pace. La professoressa Kerstin Odendahl della delegazione tedesca e il professor Manlio Frigo di BonelliErede, in quella sede delegato UNIDROIT, hanno parlato della possibilità di considerare i reati contro i beni culturali come “crimini contro l'umanità”, mentre Paolo Giorgio Ferri di ICCROM sostiene che si tratti piuttosto di “genocidio culturale”, perché intesi a sterminare l'identità di una nazione.

L’incontro tecnico. Dalla riunione è emersa anche la consapevolezza dell'esistenza di un quadro normativo internazionale forte, costellato da una serie di trattati per la protezione del patrimonio, tra cui spiccano la Convenzione dell'Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, la Convenzione UNESCO “del patrimonio mondiale” (1972), quella UNESCO del 1970 concernente le misure per interdire e impedire l'illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali, quella UNIDROIT del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati ed anche direttive europee e l'approvanda Convenzione del Consiglio d'Europa sulla tutela penale dei beni culturali.

Circolazione e mercato. Il testo della dichiarazione finale incoraggia gli Stati alla ratifica e all'implementazione dei trattati già esistenti onde evitare un'inutile e improduttiva proliferazione di grida. Infatti, come ha ricordato Edouard Planche, esperto UNESCO, un terzo dei paesi non ha ancora ratificato la Convenzione del 1970, pietra angolare del sistema restitutorio internazionale, e ancora maggiore è il numero degli Stati che manca all'appello di UNIDROIT.
La non cessata ritrosia dei mercanti d'arte, nelle cosiddette “Market Nations”, ostacola la ratifica di questi testi. «Pensano che queste convenzioni siano contro il mercato, ma si sbagliano – sostiene il professor Frigo – queste Convenzioni sono per la trasparenza del mercato».
Un mercato trasparente, in cui l'obbligo di due diligence previsto dalla Convenzione UNIDROIT (Art. 4(4)) e dalla Direttiva 2014/60/UE (Art.10(2)) diventi prassi consueta, è fatto salvo dalle ricadute che le attività illecite possono avere su di esso.

La diffidenza che l'ingente emissione di antichità razziate e illecitamente esportate dai territori della “mezzaluna fertile” ha generato nel mercato dell'arte può essere superata soltanto con l'utilizzo di adeguate precauzioni. Non si tratta solo di strumenti di hard law, come i trattati, ma anche di strumenti di soft law, come il Codice Etico per i Musei dell'ICOM o le Linee Guida Internazionali sul contrasto al traffico di beni culturali dell'UNODC.
A questi mezzi si aggiunge la consultazione delle Red List dell'ICOM, liste di beni culturali in pericolo provenienti dalle cosiddette “aree calde” e il database INTERPOLcon più di 49,000 opere d'arte rubate.
Una zona d'ombra nella sovrabbondante legislazione internazionale è rappresentata dall'assenza di severe normative all'importazione dei beni culturali. Se Canada e Germania hanno provveduto internamente supplendo a questa mancanza, la Commissione Europea ha già commissionato un primo studio sul tema a cui farà seguito un secondo sul traffico illecito. La Commissione spera di arrivare presto ad una regolamentazione unitaria, magari nel 2018, in occasione dell'European Year of Cultural Heritage.

Ugualmente importanti sono i training di agenti delle dogane organizzati da INTERPOL e OMD (WCO), l'addestramento di unità di polizia specializzate sull'esempio del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale italiani, nonché forum e workshop organizzati da quella stessa piattaforma di organizzazioni internazionali ospiti al G7 che sinergicamente collaborano già da tempo. In quella sede, si è anche ravvisata la necessità di creare una “cultura del patrimonio” a cui educare i giovani mediante apposite scuole, progetti e corsi.
Nella sessione ministeriale pomeridiana, la convergenza delle linee politiche dei sette Stati sui temi della protezione del “patrimonio dell'umanità”, della lotta al traffico illecito finalizzato ad alimentare il terrorismo, della preservazione della multiculturalità, del finanziamento ed incentivazione della cultura in tutte le sue forme ha portato alla sottoscrizione della Dichiarazione di Firenze che riconosce il ruolo di guida dei sette paesi firmatari e pone su di essi nuovi obblighi di performance e best practice.

La mattinata del 31 marzo è stata occasione di confronto tra intellettuali dei sette paesi nella splendida cornice del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. L'incontro ha visto la partecipazione di Paolo Baratta, Presidente della Fondazione Biennale di Venezia; Simon Brault, direttore e ceo del Canada Council for the Arts; Sir Ciaran Devane, chief executive del British Council; Yuko Hasegawa, chief curator del Museum of Contemporary Art Tokyo; Serge Lasvignes, presidente del Centre Pompidou; Shermin Langhoff, direttore Artistico del Maxim Gorki Theatredi Berlino e Bruce Warthon del Dipartimento Public Diplomacy and Public Affairs degli Stati Uniti. I “sette saggi” si sono uniti a Riccardo Muti, che la sera precedente aveva diretto l'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, nell'accorato appello rivolto ai Ministri, alla Direttrice Generale di UNESCO, Irina Bokova, e alle alte cariche internazionali delle prime file affinché gli impegni presi vengano portati avanti e non restino lettera morta. Franceschini ha chiuso la riunione internazionale con un arrivederci al prossimo G7 Cultura che spera avrà luogo sotto la presidenza canadese del 2018.

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