Si è aperta venerdì mattina, 29 settembre, alle ore 10,30, a Pesaro, l'udienza di discussione che avrebbe chiuso il secondo grado di merito del procedimento in opposizione all'ordinanza di confisca emessa dal Gip del Tribunale di Pesaro relativa all'«Atleta Vittorioso».
Il caso
Tormenta le direzioni generali del Mibact e le Corti italiane dagli anni 60, la contesa della statua bronzea attribuita allo scultore greco Lisippo, nota come “Atleta Vittorioso”. L'ipotesi più accreditata è che in antichità la statua sia naufragata nel medio Adriatico insieme alla nave che la stava trasportando dalla Grecia verso la penisola italiana, probabilmente puntava al porto di Ancona. Rinvenuto nel 1964 al largo della costa marchigiana da pescatori di Fano, il bronzo sarebbe passato di mano in mano, da una famiglia di imprenditori di Gubbio al consorzio Artemis del mercante Herzer Heinz, sino a riaffiorare nelle sale del Getty Museum di Malibù nel 1977. Il museo avrebbe acquistato la statua per quasi 4 milioni di dollari strappandola al concorrente Met , la stima attuale è di 16 milioni. La statua ha un'altezza (misurata dal capo al polpaccio, visto che i piedi non sono presenti) di 151,5 cm, di 70 cm larghezza e in profondità 28 cm.
La storia in tribunale
Dopo varie parentesi processuali, cominciate negli anni 60, nel 2007, il caso è stato riaperto davanti alla giustizia pesarese. Indagati erano i comandanti del peschereccio, Guido Ferri e Romeo Pirani, e tre membri della famiglia Barbetti, imprenditori eugubini e primi acquirenti. Quello stesso anno, il Gip del Tribunale di Pesaro accogliendo l'istanza di archiviazione del Pm per morte degli imputati e prescrizione dei reati, rigettava la richiesta di confisca. Contro il rigetto si è opposto il Pm, ottenendo l'accoglimento dell'ordinanza di confisca (10 febbraio 2010), che è stata impugnata dal Getty Museum, attuale detentore della statua. La Corte di legittimità ha quindi convertito il “ricorso del terzo” (il Getty) in opposizione. A seguito di una seconda fase processuale, approdata ad ordinanza di confisca del 3 maggio 2012, annullata dalla Corte Suprema con sentenza del 27 ottobre 2015 (a seguito di intervento della Corte Costituzionale), gli atti sono stati restituiti al giudice pesarese per la celebrazione del giudizio di “secondo grado di merito” richiesto dal Getty Museum, terzo possessore.
L’udienza
All'udienza del 29 settembre scorso erano presenti in aula, il pubblico ministero Silvia Cecchi, l'avvocato dello Stato Lorenzo D'Ascia, e l'Associazione Le Cento Città , rappresentata dall'avvocato Tristano Tonnini sul cui esposto venne riaperto il caso. Per il ricorrente, Getty Museum, erano presenti gli avvocati Alfredo Gaito ed Emanuele Rimini. L'udienza si è aperta con un'eccezione sollevata dalla difesa del museo con cui si è chiesto che Stephen Clark, legale rappresentate del Getty, potesse rilasciare dichiarazioni spontanee, in base al diritto per cui l'imputato (in questo caso “terzo possessore”), in qualsiasi momento, può chiedere di essere sentito. Avendo Clark deciso di prendere parola dopo le esposizioni delle tesi dell'accusa, si è giunti nel vivo del dibattimento.
Le Requisitorie del pubblico ministero e dall'avvocatura dello Stato hanno fatto emergere chiaramente la scientia fraudis del museo americano all'epoca dell'acquisto dell'opera, è stata tuttavia vagliata anche la nozione di terzo estraneo richiamata dall'art. 174 del Codice Urbani . Il Pm ha precisato che: “questa nozione non si identifica con quella di buona fede meramente passiva, ma con la due diligence (onere di attivarsi) unitamente all'elemento oggettivo del mancato conseguimento di vantaggio”.
Dopo aver ribadito la competenza giurisdizionale italiana e la necessaria applicazione della legge italiana mediante rinvio indietro al nostro ordinamento ex artt. 16-17 della L. 218 del 1995 (diritto internazionale privato italiano) , il Pm, ha affermato la proprietà italiana del bene. La pubblica accusa, pur ritenendo comunque valida la tesi dell'appartenenza del bronzo allo Stato iure territori, ha fondato la proprietà italiana del bene ratione et natura rei, cioè in ragione della natura stessa del bene, intimamente connesso con il contesto d'origine. Con l'applicazione dell'art. 511, c.2, del Codice della Navigazione, che impedisce che il bene archeologico ovunque rinvenuto, possa anche solo temporaneamente transitare per una proprietà del privato “possessore”, il Pm ha sostenuto la tesi del diritto di proprietà dello Stato ab origine.
Il Pm e l'Avvocatura hanno concordato nel considerare la due diligence al momento dell'acquisto di un bene d'arte, lo slittamento dell'onere probatorio in capo al possessore e il principio restitutorio di beni illecitamente commerciati come facenti ormai parte dell'ordre public interno ed internazionale. Intendendo per ordine pubblico interno tutti i principi desumibili dalla Costituzione o che formino il cardine della struttura etica, sociale ed economica della comunità nazionale in un determinato momento storico, e per ordine pubblico internazionale gli storici principi su ci si imperniano le più volte citate Convenzioni sorelle: la Convenzione UNESCO del 1970 e la Convenzione UNIDROIT del 1995, ripresi dalle più recenti Linee Guida UNODC e dalla Convenzione del Consiglio d'Europa del 2017 sui reati relativi ai beni culturali.
Secondo il Pm e l'Avvocatura, questi principi sono a tal punto metabolizzati nel diritto internazionale da essere passibili di applicazione anche senza che si siano ratificati i trattati che li contengono. Il Pm ha ritenuto a questo proposito “fondamentale” il richiamo alla sentenza della Corte d'Appello inglese Barakat con cui si è ordinata la restituzione di antichità iraniane sulla base delle norme di ordre public internazionale.
La mancata compliance al dovere di due diligence, unita alle informazioni che la galleria Artemis forniva al museo sul ritrovamento, sui procedimenti e sullo status “incerto” del bene, secondo l'avvocato di Stato, sono sufficienti a far decadere l'acquirente da ogni presunzione di buona fede.
Di “malafede assoluta” del Getty Museum parla, invece, l'avvocato Tristano Tonnini per l'Associazione Le Cento Città, anch'essa parte in causa, che pone enfasi sul precedente che il Tribunale di Pesaro potrebbe creare negando il provvedimento di confisca di un bene culturale appartenente allo Stato e quindi res extra commercium: “l'Italia intera finirebbe per essere depredata di tutti i suoi beni”. La confisca, in questo caso, avrebbe un carattere recuperatorio, concorda l'accusa, non si tratterebbe di un provvedimento sanzionatorio.
Test case
Nel caso in cui il giudice del Tribunale di Pesaro rigettasse la richiesta di confisca della statua accogliendo le ragioni del Getty Museum principalmente fondate sull'acquisto a non domino, cioè da persona diversa rispetto al proprietario, in buona fede, si creerebbe un precedente scomodo per le Corti italiane. Il bad behaviour del Getty Museum negli anni 70-80 è cosa nota nel mondo dell'arte (si vedano il Caso Medici o i racconti di Jason Felch e Ralph Frammolino in Chasing Aphrodite ), chiudere un occhio ora significherebbe legittimare condotte simili in casi simili. I musei con pezzi di illecita provenienza in collezione potrebbero invocare questo procedente per ritenere il possesso dei beni, invece di scendere a patti con lo Stato italiano con accordi e spontanee restituzioni, com'è oggi prassi abituale.
Dopo quasi sei ore di discussione, la difesa del Getty, prendendo tempo, ha chiesto che Stephen Clark potesse visionare le memorie prima di rilasciare dichiarazioni e così la discussione è riaggiornata al 20 ottobre prossimo.
Casi Simili
Recentemente il Getty Museum di Malibù ha restituito la statua dello “Zeus in Trono”, che era stata oggetto di un processo analogo a quello dell'«Atleta di Fano». In seguito a negoziati intervenuti tra il museo californiano e il Mibact si è scelta la via della spontanea restituzione, avvenuta lo scorso giugno. Anche nel caso della testa del “Druso Minore“ del Cleveland Museum of Art si è propeso per un accordo con il Mibact per la restituzione. Questi patti partono dal riconoscimento della proprietà italiana del bene e possono includere prestiti a lungo termine dell'opera stessa o di altre opere italiane.
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