In molti hanno ritenuto la formula sul capital gain sull'arte enunciata in bozza dalla Manovra 2018 - spiegata sabato scorso e ieri su Il Sole 24 Ore - una vera bomba per il mondo dell'arte, che avrebbe potuto dare il colpo di grazia al già comatoso mercato italiano. Il regime, presentato come “interpretativo” si sarebbe dovuto applicare alle plusvalenze realizzate non solo a partire dal 1° gennaio 2018, ma con previsione di retroattività degli effetti anche sui periodi d'imposta aperti alla data di entrata in vigore della Legge, cioè nei cinque anni precedenti. La relazione tecnica parla di un giro d'affari di 2 miliardi in cinque anni e di una base imponibile prudenziale di 1 miliardo, con un gettito stimato prudenzialmente in 160 milioni di euro. Unica voce favorevole contenuta nella nuova norma, che ha fatto esultare i galleristi, l’ipotesi di ridurre l’Iva sull’importazione di opere d’arte dai paesi extra Ue dal 10 al 5%. Ma andiamo con ordine.
Un articolato severo. Certo la prima scrittura della norma molto severa per il mondo del collezionismo privato – con una retroattività dell'imposizione sulle opere comprate negli ultimi cinque anni, un pesante regime Iperf ordinario e uno forfettario troppo elevato - ha lasciato molti operatori, collezionisti e professionisti senza parole. L'estromissione della norma pare ascrivibile al niet arrivato al Mef e all'Agenzia delle Entrate dal Mibact, “già impegnato nell'applicazione della riforma sulla circolazione internazionale delle opere d'arte, contenuta nella legge n. 124 del 4 agosto, in vigore dal 29 agosto, e al lavoro sulla riforma dei reati contro il patrimonio culturale” scrive l'avvocato Annapaola Negri-Clementi dello Studio Negri-Clementi. Conferma la freddezza del Mibact l'avvocato Giuseppe Calabi dello studio milaneseCBM & Partners: “Mi risulta che il Mibact abbia valutato la norma arrivata dal Mef, non l'ha né promossa né appoggiata”.
Da anni infatti ci si interroga, in parallelo al crescere del numero di transazioni e del valore delle opere, se la vendita occasionale di opere d'arte da parte di collezionisti sia da considerare reddito diverso, soggetto a tassazione. Nella dottrina prevale la tesi negativa - e i collezionisti italiani nulla dichiarano e nulla pagano -, anche se negli ultimi tempi l'Agenzia delle Entrate ha espresso segnali contrari.
In controluce l'ipotesi in manovra. La prima contestazione all'ipotesi di tassazione del capital gain sull'arte deriva dall'errore di analogia. “Se un'analogia è possibile fare nella composizione del patrimonio privato e nelle scelte di investimento degli italiani certamente essa vale tra opere d'arte ed immobili e di sicuro non tra opere d'arte ed attività finanziarie” spiega Franco Dante, dottore commercialista dello Studio commercialista Dante & Associati di Torino. Il chiarimento dunque era atteso. “Ma avrebbe dovuto andare in senso opposto, cioè avrebbe dovuto definitivamente fare salve le dismissioni patrimoniali confermando al contempo l'imponibilità delle plusvalenze derivanti da un'attività speculativa. E poi la norma non teneva in alcun conto la durata del possesso dell'opera che, invece, è la discriminante fondamentale per considerare rilevanti le plusvalenze di cui alla lettera b) dello stesso Art. 67, cioè quelle sui beni immobili, che sono imponibili solo se realizzate nell'arco di un quinquennio e mai se relative ad immobili ricevuti per successione, e in questo caso anche in donazione” prosegue Dante. Infatti la versione della norma in stand by: “sembra affermare che i redditi derivanti dalla vendita di oggetti d'arte configurano sempre un reddito diverso derivante da un'attività commerciale non esercitata abitualmente, compreso il caso - pacificamente escluso dall'ipotesi di attività commerciale occasionale - in cui l'opera sia stata ereditata o ricevuta in donazione”.
Prima di stendere un testo di proposta di legge sarebbe stato molto opportuno guardare al regime di stati a noi molto vicini ed in larga misura omogenei per storia ed origine del patrimonio artistico e culturale. In Francia per esempio, esiste l'imposta sulle cessioni a titolo oneroso e sull'esportazione fuori dalla Ue di opere d'arte, ma l'imposta si applica con le stesse regole degli immobili e quindi non è dovuta se l'opera è stata acquistata più di 22 anni prima della cessione “E l'imposta può essere applicata in modo analitico ovvero forfettario e, in tal caso, essa è pari al 6% del corrispettivo della cessione, contro un'aliquota compresa tra il 9,2% ed il 17,2% dell'ipotesi italiana” spiega Dante.
“L'interpretazione autentica dell'art. 67 primo comma, lett. l) prevista nella bozza della legge di bilancio per il 2018 - chiosa Massimo Sterpi, avvocato partner dello Studio legale Jacobacci & Associati - ha addirittura effetti retroattivi, applicandosi quindi a tutti i periodi di imposta per i quali è ancora possibile un accertamento (quindi, normalmente, agli ultimi cinque anni)”. Di conseguenza, i collezionisti che hanno venduto opere negli ultimi cinque anni (il doppio nei paesi black list) avrebbero dovuto affrettarsi a pagare le tasse sulle plusvalenze realizzate e i relativi interessi nel periodo al saldo Irpef per l'anno 2017, cioè al 30 giugno 2018, versando l'Irpef dovuta con una sorta di voluntary disclosure beneficiando di una riduzione delle sanzioni a un ottavo del minimo (30% dell'omesso pagamento, ndr)”
“Insomma l'intento di far passare la norma come di carattere interpretativo - mentre si tratta, invece, chiaramente di una nuova fattispecie impositiva in tutti i casi in cui manca l'esercizio di impresa occasionale - e di renderla dunque applicabile anche alle cessioni avvenute negli ultimi cinque anni, oltre ad essere contrario a tutti i principi del nostro ordinamento, dall'Art. 11 delle preleggi all'Art.3 dello Statuto del Contribuente, crea un enorme danno alla credibilità del Paese proprio nel momento in cui si fanno finalmente degli sforzi legislativi per attrarre investitori e residenti privilegiati proprietari di grandi patrimoni (Art. 24-bis del TUIR che prevede la cosiddetta flat tax per gli HNWI che si trasferiscono in Italia, ndr)” conclude Dante.
Se il collezionismo d'arte in Italia è visto da molti collezionisti italiani e stranieri come una sorta di isola felice e tax free, la festa potrebbe finire. Fortunatamente la posizione contraria del Mibact fa comprendere come lo stesso collezionismo privato sia alla base di molte attività legate ai nostri musei (prestiti, comodati, mostre ecc..) e una fuga delle collezioni d'arte private dall'Italia farebbe perdere a tutti un patrimonio culturale diffuso e parte significativa della fruizione pubblica.
Entrando più nel dettaglio della norma in stand by, i commi successivi definiscono la plusvalenza come la differenza tra costi di acquisto (e costi correlati alla successiva conservazione dell'opera) e ricavo finale: è notorio che nel passato un grandissimo numero di transazioni sono avvenute in “nero”, il che renderebbe ben difficile provare il prezzo di acquisto. “Senza dirlo, il legislatore risolve tuttavia questo problema – prosegue l'avvocato Sterpi - permettendo di determinare la plusvalenza - in alternativa alla differenza tra costi di acquisto (e conservazione) e ricavi - accettando che essa sia forfettariamente ritenuta pari al 40% del ricavo della vendita, facendo tirare un sospiro di sollievo a molti collezionisti”.
Ma la misura forfettaria che ne risulta è troppo elevata rispetto ad altri paesi europei.
Infine, dato che vengono resi detraibili non solo i costi di acquisto del bene ma anche quelli di assicurazione, restauro, etc,: “questo indurrà i collezionisti a tenere meticolosamente traccia di tutte le spese effettuate, con attività più simile a quella di un commerciante professionale che a quella di un privato” conclude Sterpi.
Le criticità. Altra critica è mossa dall'avvocato Annapaola Negri-Clementi: “Il capital gain su cui è applicato il regime di tassazione previsto dall'art. 67, comma 1, lettera (i) del TUIR – ossia tassazione per “reddito diverso” quindi redditi non di impresa – sono i redditi derivante dalla differenza tra il corrispettivo percepito nel periodi di imposta (al netto della commissione pagata alla casa d'asta o ad altro intermediario professionale) e il costo di acquisto degli oggetti ed opere cedute (aumentato di ogni altro costo inerente all'acquisizione dei medesimi oggetti e delle medesime opere, incluse spese di assicurazione, di restauro, di catalogazione e altre). Il risultato è il seguente: il collezionista persona fisica (che per di più stesse operando non nell'ambito di una attività commerciale) che avesse acquistato un quadro di Fontana nel 1980 pagandolo 15 milioni di Lire e lo vendesse oggi per 3 milioni di euro dovrebbe per questo essere tassato. E sarebbe tassato sulla vendita di un bene già di sua proprietà, magari di cui era proprietario da decine di anni, e per di più al di fuori dell'attività di impresa. E già, sulla base di quest'ultimo elemento, potrebbe essere invocato un principio di sproporzione in termine di tassazione che il nostro collezionista verrebbe a subire. In secondo luogo, la sproporzione andrebbe a colpire un reddito che potrebbe ben sorgere al di fuori di un'attività speculativa. Se si trattasse di vendita di immobili, sappiamo che il regime di tassazione è diverso se l'acquisto è considerato attività speculativa (ossia qualora l'acquirente rivendesse l'immobile entro i successivi cinque anni come per prassi viene riconosciuto) o se esso è attività non speculativa (qualora l'immobile fosse rivenduto oltre i cinque anni dall'acquisto). Nella normativa che si ipotizza, invece, la cessione dell'opera d'arte è tassata indifferentemente dal carattere speculativo o meno dell'acquisto. In terzo luogo, si sarebbe forse potuto ipotizzare un regime di rivalutazione, come quello che opera per le partecipazioni societarie o per i beni strumentali di impresa. Si verrebbe ad evitare una sperequazione consentendo allo Stato un gettito derivante dalla applicazione di una aliquota agevolata su quelle opere che venissero assoggettate ad una perizia di stima e autenticità. L'affrancamento consentirebbe dunque (dopo un periodo di tempo di detenzione magari al pari delle partecipazioni o dei beni d'impresa) di poter cedere l'opera d'arte con una esenzione totale dell'eventuale plusvalore ottenuto” conclude l'avvocato dello studio milanese Negri-Clementi.
Ferdinando Crosta dello Studio Dottori Commercialisti Associati osserva: “In via preliminare non appare chiaro l'obiettivo della norma se non quello di recuperare di forza un possibile gettito rischiando di sacrificare l'intero settore, un po' come fece il buon Monti con l'imposta sulle barche che ha di fatto stroncato la nautica da diporto. Se, invece, l'intenzione era quella di recuperare l'evasione temo che l'intervento avrebbe conseguenze esattamente contrarie in quanto insisterà solo sui soggetti che operano in settori trasparenti. Le case d'asta sono soggette ad adempimenti antiriciclaggio e di informativa tali da rendere i dati relativi alle vendite disponibili alle autorità preposte. Questo non significa che non esiste evasione nel settore dell'arte, ma lo strumento per contrastarla non può essere una tassazione così elevata che anzi spingerebbe il fenomeno proprio in forza del premio all'evasione che implicitamente attribuirà”. Anche Crosta rileva perplessità sul piano della pura tecnica legislativa: “osservo gli evidenti profili di incostituzionalità della retroattività prevista per tutti gli anni accertabili con obbligo di dichiarazione a valere sui redditi del 2017 gravati da interessi e solo sfumata dalla riduzione della sanzioni. Uno spettacolo: interessi e sanzioni per imposte che non esistevano prima. Inoltre, l'imposta non colpisce una creazione di ricchezza o la “novella ricchezza” base per una tassazione, bensì andrebbe a colpire l'effetto della liquidazione di valori patrimoniali già esistenti, senza possibilità di detassazione per il reinvestimento, privando la misura di un possibile effetto positivo propulsivo. Di fatto siamo di fronte ad una imposta patrimoniale introdotta in modo surrettizio e di incidenza così elevata da non avere riscontri in altri paesi dove pure la patrimoniale esiste” conclude Crosta, commercialista di importanti case d'asta.
Medesime critiche giungono dagli avvocati Michele Citarella e Elio Palmitessa delloStudio CBA: “Dalle prime indiscrezioni sui contenuti della legge di bilancio sembrava fino a ieri emergere la volontà del governo di disciplinare lo spinoso tema della tassazione delle opere d'arte con l'evidente finalità di ricavare risorse da un mercato potenzialmente molto ricco, attraverso l'introduzione di una norma interpretativa che dispieghi i suoi effetti anche per i periodi d'imposta precedenti, ancora suscettibili di accertamento. Premessa la legittimità dei dubbi sulla eccezionalità di questa fattispecie e quindi sulla compatibilità di una norma interpretativa che abbia portata retroattiva con i principi dello Statuto del Contribuente, sembra che in qualche misura il governo si renda conto della ambiguità della propria proposta e quindi abbia accompagnato il tutto con una sorta di condono mascherato attraverso una riduzione delle sanzioni per chi, entro il prossimo 30 giugno, si adeguerà a questa “interpretazione”. Non è difficile prevedere che il livello delle critiche e di contrarietà, anche in Parlamento, a questa proposta è destinato a salire se il testo tornerà così com'è in bozza e reso pubblico.
Silvia Segnalini, art lawyer dello Studio Piselli and Partners di Roma e professore aggregato nell'Università Sapienza di Roma, sottolinea: “Là dove con la recente micro-riforma della circolazione internazionale delle opere d'arte, il Governo sembra inaugurare una stagione di maggior apertura verso il mercato dell'arte (e di allentamento della burocrazia nei suoi confronti) ; provvede poi a correggere il tiro introducendo tra i “redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente” (così l'art 67 del TUIR) tassabili nella plusvalenza anche una serie di fattispecie legate alla compravendita/donazione/caduta in successione di opere d'arte. Dimostrando così o di non aver nemmeno minimamente compreso le ragioni per cui una serie di professionisti del settore hanno fatto pressione sul Mibact per anni per poi ottenere la micro-riforma di cui sopra; o di essere totalmente incoerente nelle scelte di riforma”. E l'avvocato si spinge oltre: “In Italia come capital gain nel mondo dell'arte (perché di questo di tratta) era sufficiente il diritto di seguito, che tra l'altro va a colpire più duramente il mercato italiano dell'arte proprio in quella fascia media (opere scambiate con valori fino a 50.000 euro) che più lo caratterizza. L'arte non ha solo un dividendo passionale per chi l'acquista, ma anche uno economico che non andrebbe penalizzato, posto che già la legislazione contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio è già di per se' sufficientemente da molti punti di vista per i collezionisti e il mercato italiano. Una normativa di questo tipo potrebbe mettere una pietra tombale sulla possibilità di costituire art funds italiani, come l'implementazione nel nostro paese della direttiva Alternative permetterebbe di fare più agevolmente, con buona pace dei molti vantaggi che operazioni di questo tipo potrebbero apportare del sistema complessivo dell'arte italiana”.
Ma qualcosa funzione. “Stavamo andando nella giusta direzione – afferma Pietro Vallone, direttore finanziario della galleriaMassimo De Carlo - se effettivamente era prevista l'introduzione dell'Iva al 5% all'importazione dai paesi extra Ue. Un intervento importante per far crescere il mercato dell'arte in Italia, rivitalizzando l'intero sistema”. In Italia l'Iva all'importazione oggi è al 10% contro un 5% del Regno Unito, un 5,5% della Francia, un 6% dell'Olanda e Belgio e un 7,6% della vicinissima Svizzera. Riduzione prevista della tassazione dal 10 al 5% anche per le opere cedute direttamente dall'artista, come in molti altri paesi europei.
Che ci fosse la necessità di tassare in modo intelligente le plusvalenze maturate dalla compravendita di opere d'arte fatte dai privati è una dato. “La chiarezza prima di tutto, - prosegue Vallone - adesso siamo in un contesto di incertezza che scoraggia chi colleziona e favorisce chi specula. Allo stesso tempo, ritengo che si può fare di più, per come era scritto il provvedimento non risolveva il problema, anzi mortificava i collezionisti italiani e indeboliva le collezioni, danneggiando indirettamente gli artisti italiani. Bisognerebbe integrare un meccanismo che riduca o elimini la tassazione se le plusvalenze vengono reinvestite in acquisto di altre opere d'arte” conclude Vallone.
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