Il Sole 24 Ore
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18 luglio 2010

Cari keynesiani, sporcatevi le mani

di Roberto Perotti



Alcuni anni fa, al mio ritorno in Italia, presentai in una delle maggiori università un'analisi empirica degli effetti macroeconomici della spesa pubblica, scritta con Olivier Blanchard, oggi direttore del centro di ricerca dell'Fmi. Nel mezzo della presentazione un professore alzò la mano e disse: «Questi risultati sono di destra». Fu la mia epifania accademica: non avevo mai pensato in vita mia che un'analisi statistica dei dati potesse essere etichettata come di destra o di sinistra (ironicamente, Olivier Blanchard è il maestro degli economisti keynesiani, e uomo tutt'altro che di destra; e il lavoro in questione è da allora spesso citato a supporto delle tesi keynesiane).
In questi giorni numerosi interventi su queste pagine hanno proposto l'ennesima caratterizzazione di una supposta scuola "neo-liberista". Semplificando, ma non troppo, la rappresentazione tipica che si dà di questa scuola è la seguente: gli individui agiscono sulla base di complicati processi matematici di ottimizzazione delle proprie azioni; in un contesto in cui tutti i mercati (dei beni, del credito, del lavoro) operano perfettamente; ne consegue che gli economisti "neo-liberisti" sarebbero contrari a qualsiasi forma di intervento statale, e uniformemente avversi a qualsiasi forma di spesa pubblica.
Questa non è una caratterizzazione dei "neo-liberisti", ma una caricatura, spesso utilizzata per concludere trionfalmente che degli economisti così ottusi non avrebbero mai potuto prevedere né capire la crisi, e sono oggi inutili e screditati. Eppure, vi sono intere biblioteche di lavori scientifici in cui economisti ragionevoli cercano di investigare senza prevenzioni e con modelli spesso semplicissimi cosa succede se uno o più di decine di mercati non funzionano perfettamente, e quale sia l'intervento ottimale dello stato in questi casi. Perché vengono sistematicamente ignorati? In parte perché i critici dei "neo-liberisti" non sono al corrente degli sviluppi della disciplina negli ultimi trenta anni. Se qualsiasi lavoro dei "neo-liberisti" è sempre e solo un diabolico piano reazionario di subdoli economisti servi del padrone e votati allo smantellamento del welfare state, allora non c'è nessuno motivo per andare oltre il mondo della General Theory di Keynes e tentare di fornirsi degli strumenti per comprendere gli sviluppi recenti della ricerca.
Propensi come sono ad attribuire sempre una motivazione politica o ideologica ai propri avversari, questi critici dei "neo-liberisti" non comprendono che la differenza fra le "scuole" è in gran parte una questione di metodologia, non di ideologia. Prendiamo un caso concreto: il dibattito recente sulla spesa pubblica, e l'opportunità o meno di tagliare il disavanzo e la spesa. C'è un'infinità di teorie al riguardo, ma continuare a parlarne, invocando di volta in volta l'autorità di Keynes o Friedman, di Blair o Reagan, non serve a molto. Un passo in avanti è cercare di corroborare o falsificare le teorie con un'analisi dei dati.
Purtroppo non è così semplice: se per esempio le due serie storiche di spesa pubblica e Pil si muovono insieme (crescono e scendono insieme) non si può concludere che un aumento della spesa pubblica causi un aumento del Pil; una spiegazione ugualmente plausibile, ma con causalità invertita, è per esempio che quando il Pil sale, le entrate fiscali salgono e ciò permette allo stato di spendere di più. Per distinguere tra queste due spiegazioni è necessaria un'analisi statistica un po' più sofisticata che guardare al grafico delle due serie.
È qui che diventa evidente il ruolo della metodologia, ed è questa metodologia che a mio avviso caratterizza gran parte dell'approccio "neo-liberista" ben più dei supposti ideologismi pro-mercato. Primo, è necessario individuare gli "shocks" alla spesa pubblica e al Pil; ma poiché essi non sono osservabili nei dati grezzi, è necessaria una teoria che li definisca esattamente. Questa teoria, formale o meno, è anche necessaria per accertare che le proprie affermazioni siano internamente coerenti. Secondo, l'indagine econometrica desume dai dati grezzi gli shocks così definiti, e ne studia poi gli effetti sul Pil. Potremmo così concludere che uno shock alla spesa pubblica causi una diminuzione del Pil. È la fine della discussione? No, perché un altro approccio e altre assunzioni possono condurre a shock diversi e conclusioni opposte.
Come in tutte le scienze sociali, non vi sarà mai certezza. Ma una differenza fondamentale tra molti "neo-liberisti" e i loro critici è che i primi si sporcano le mani con i dati; il dibattito viene quindi spostato dall'ideologia e dal principio di autorità al terreno forse un po' arido ma ben più costruttivo di ipotesi econometriche, shocks e tecniche statistiche. Questo è il vero, grande progresso della scienza economica degli ultimi trenta anni. Mentre mi sento di affermare con una certa sicurezza che la stragrande maggioranza dei loro critici non si è mai sporcata le mani con i dati, e le poche eccezioni mostrano una conoscenza spesso rudimentale delle metodologie necessarie per un'analisi statistica non banale.
Questa scarsa attenzione allo studio dei dati è in parte dovuta a mancanza di strumenti, ma in parte anche a una prevenzione di fondo. Per i critici dei "neo-liberisti" molto spesso gli sviluppi dell'economia e della finanza moderna sono solo la sovrastruttura di un mondo marcio, che non vale la pena di studiare e comprendere perché essi vanno comunque pesantemente regolati se non soppressi.
È sulla base di questa visione del mondo che la Grande Recessione viene spiegata in riferimento a grandi categorie filosofiche («l'avidità intrinseca nel sistema capitalistico», «il fallimento del mercato»), invece che cercare di capire il funzionamento dell'economia moderna usando una metodologia disprezzata anche se mal compresa.
Roberto Perotti insegna all'Università Bocconi
roberto.perotti@unibocconi.it
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18 luglio 2010