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Commenti e Inchieste

Tre operai non sono gli operai

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2010 alle ore 08:53.

Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, i tre operai Fiat di Melfi, si apprestano a diventare icone dell'agosto italiano 2010, dipinti come sindacalisti licenziati dall'ex manager dal volto umano Marchionne, che un pretore reintegra col pieno suggello del diritto e che una Fiat tornata col cilindro padronale e il sigarone delle vecchie caricature del '900 si ostina a perseguitare. Li vedete fotografati in maglietta, scrivono al presidente Napolitano, spopolano sui blog, presto saranno protagonisti dei redivivi talk show.


Perché uno scontro così duro, si chiedono in tanti, perché un contrasto così radicale si chiede sul «Corriere della Sera» il parlamentare riformista e illustre giuslavorista Pietro Ichino? Vale la pena, argomenta Ichino, mettere a rischio l'intero «piano Marchionne» per un caso discutibile, minore e che rischia di invalidare la strategia di nuova contrattualità in Italia?
La risposta sottintesa è, ovviamente, no, non val la pena far naufragare la strategia di investimenti nel nostro paese per un punto di principio. Dissentiamo: a ben guardare oltre il chiasso della propaganda, si vede che non è in gioco il destino personale di Barozzino, Lamorte e Pignatelli (cui auguriamo di risolvere positivamente la controversia). Non si tratta di un «punto di principio», ma di un caso particolare di una questione globale, quella sì dirimente. È possibile per una multinazionale che vuol produrre «anche» nel nostro paese farlo secondo le regole mondiali che reggono l'«automotive» o deve rassegnarsi a farlo «all'italiana»?
Se i casi individuali o di gruppi minuscoli, arroccati nel diritto del lavoro italiano, così unico perfino nel già peculiare panorama europeo, rendono sconveniente investire da noi, per quanti blog fioriscano, per quanti cortei rispolverino slogan antichi e per quante grandi firme incanutite invochino l'ebbrezza di una lontana giovinezza, non creeremo neppure un posto di lavoro in più.

Alla fine Barozzino, Lamorte e Pignatelli troveranno una loro garanzia, ma i tanti disoccupati di cui non conosciamo il nome e i tanti precari che non hanno la foto con polo Sata e i tanti operai che sperano di continuare a lavorare, saranno a rischio.

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Tags Correlati: Antonio Lamorte | Attività sindacale | CGIL | Fiat | Fiom | Giovanni Barozzino | Guglielmo Epifani | Italia | Marco Pignatelli | No | Pietro Ichino | Sergio Marchionne | Susanna Camusso

 

L'abbiamo già detto e lo ripetiamo, all'opinione pubblica che in questa estate di caldane ha ancora a cuore il futuro del paese. Se Sergio Marchionne riconoscerà che ci sono le condizioni in Italia perché la Fiat cresca, la Fiat crescerà. Se no, non si tratterà solo di una sempre meno impegnata presenza dell'azienda torinese sul territorio nazionale: il segnale di sconfitta passerà sui Blackberry degli investitori ovunque e l'Italia perderà ulteriore ranking nelle loro scelte. Perché investire nelle fabbriche di un paese dove bastano un blog, una sentenza e tanta falsa coscienza a fermare la produzione?


La Fiom del neosegretario Landini e i gruppi radicali che la pungolano sono davanti a una scelta secca: o battersi sul serio per il lavoro, accettando compromessi e negoziati anche amari come sapeva fare un Bruno Trentin, o puntare sul vantaggio di sigla, scommettere sulla rendita che i Signor No sempre accumulano in Italia e rinnegare così le storiche battaglie sindacali contro i massimalisti. Chi avrà paura dei "nemici a sinistra", i riformisti pallidi che cercassero anche stavolta di non far troppo rumore, perderebbe per sempre la chance di guidare verso il futuro il movimento dei lavoratori, in fabbrica e fuori.
La staffetta Cgil tra il segretario Guglielmo Epifani e Susanna Camusso ha questa posta, sapere completare la maturazione della maggiore sigla sindacale dell'industria italiana in vero partner della produzione, custode gelosa dei lavoratori, ma persuasa che se la ricchezza non si genera, redistribuirla è miraggio da imbonitori. Se il mondo non crederà al nostro mercato, malgrado gli sforzi di tutti nelle aziende italiane (e guardate quel che si sta facendo nell'export in queste ore difficili) ci svuoteremo inesorabilmente: e chi, allora, tutelerà il diritto al lavoro, che la Costituzione sancisce, ma che solo investimenti veri creano?

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