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Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2011 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 27 febbraio 2011 alle ore 14:26.
Gentile direttore, quote rosa o meno, per aumentare la competitività dell'Italia non abbiamo altra scelta se non quella di aprire gli organi decisionali e di corporate governance alla più ampia gamma possibile di talento e di esperienza. Non è una questione di uguaglianza, ma di prestazioni. Come ex membro del comitato esecutivo di una delle 300 più grandi aziende quotate in borsa nel mondo, ho visto come i team portano risultati migliori rispetto agli individui, e i team vari (per esperienza e composizione) ottengono risultati di gran lunga superiori a quelli di team omogenei, evitando il "groupthink", riflettendo meglio la composizione del mercato di riferimento dell'azienda, e raggiungendo decisioni meno rischose. La transizione da un sistema omogeneo a uno misto però va gestita con conconsapevolezza. In Norvegia, nonostante 15 anni di trasformazione, molte azende hanno scelto di raggiungere le quote di 40% di donne sui CdA all'ultimo momento, creando una corsa alle qualificate, e uno squilibrio di dinamiche di gruppo dovuto al grande numero di nuovi membri da assimilare. Si è vista anche una proporzione superiore di "NED" (non-executive director) con limitata esperienza di business ma piuttosto dal mondo accademico o politico che hanno stili di decisione e conoscenze di contentuto molto diverse da quelle aziendali. Sarà quindi estremamente importante costruire una pipeline di donne manager nelle nostre aziende e nei nostri comitati esecutivi.
Annalisa Gigante
Presidente European Cmo Circle
Gentile signora, la questione delle quote rosa sta dividendo l'opinione pubblica italiana come poche e mi accorgo che Il Sole sta dedicando lo spazio maggiore al tema che lei, con così rara competenza, illustra. I pro e i contro son stati ben definiti nei tanti interventi, dalla nostra Monica D'Ascenzo all'avvocato De Nicola. Io ho visto le quote in campo in America e ne conosco gli effetti. Spesso creano risentimento. Se un ragazzo con una certa media di voti si vede negare Harvard perché un compagno, con la stessa media, ottiene l'ammissione solo perché parte di una minoranza etnica, resta l'amaro in bocca. Salvo poi scoprire che, ancora oggi, la «quota» più numerosa nelle università d'eccellenza, la Ivy League, sono i figli di ex allievi, gli «alumni» non afroamericani, ispanici o asiatici. Per ogni «privilegio» che le quote affermano, la società occidentale ne ha già troppi insediati, che scalfire è, e resterà, duro. È bene però, per evitare colpi di coda e reazioni, che le quote vengano inserite con raziocinio e pragmatismo (Eni e Fiat non hanno certo lo stesso background di una piccola azienda familiare) per evitare che, come talvolta è capitato, anziché aiutare le donne le si finisca per danneggiare. O che si creino figure fantoccio senza reale potere. Ma che il problema esista - l'Italia è, e resta, troppo esclusivo club non solo dei maschi, ma dei «soliti» maschi - è indubbio. E che le quote siano magari non la sola medicina, ma una buona medicina, resta altrettanto vero. Grazie.