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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2011 alle ore 11:26.
L'ultima modifica è del 08 marzo 2011 alle ore 06:39.

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Al Cairo Obama ha rivolto critiche a chi in occidente vieta l'uso del velo islamico e ha compilato l'elenco degli errori americani nella regione, ma non quello di aver sostenuto le dittature oggi delegittimate dalle piazze. Come tutti i presidenti americani, Obama ha anche parlato di democrazia. Ma in modo astratto.
La prima cosa che ha detto, ricordando gli anni di Bush, è stata che nessuna forma di governo può essere imposta da una nazione a un'altra, anche se i regimi democratici sono certamente più stabili e più sicuri. I giornali americani allora definirono la parte "democratica" del discorso come “Bush light”, una versione leggera dell'immaginifica retorica pro democracy del suo predecessore.
I conservatori si entusiasmarono per un particolare passaggio sull'Iraq, probabilmente sfuggito a chi oggi ricorda con commozione quel discorso: «Credo comunque che il popolo iracheno stia sostanzialmente meglio senza il tiranno Saddam Hussein».
Obama, insomma, è andato al Cairo a dire che lui non si sarebbe comportato come Bush, che l'invasione in Iraq è stata un errore da non ripetere, che l'America non avrebbe interferito negli affari interni dei regimi arabi e islamici in nome di un cambiamento strategico e di una politica estera accorta, pragmatica e realista.

Il progetto è fallito poche settimane dopo, nel modo più spettacolare: di fronte all'offerta obamiana, il regime di Teheran ha deciso di reprimere col sangue le richieste dell'opposizione di ricontare i voti espressi alle elezioni presidenziali. Gli ayatollah se lo sono potuti permettere anche perché la Casa Bianca aveva puntato sulla rinuncia all'interferenza negli affari interni di Teheran. La gente, nelle piazze di Teheran, intanto cantava: «Obama, o stai con noi o stai con loro».
Alla fine il presidente s'è accorto che non sarebbe stato ragionevole provare a far ragionare chi ragionevole non è. A poco a poco, la Casa Bianca ha mutato approccio con l'Iran, mettendo in naftalina la Realpolitik d'inizio mandato. Le rivolte nordafricane sono state l'ulteriore conferma dell'errore strategico compiuto al Cairo.
Ora i quotidiani americani raccontano di concitate riunioni alla Casa Bianca per preparare un cambio di strategia che tenga conto della nuova realtà anti-autoritaria del Medio Oriente. Nei fatti il cambiamento è già in corso, manca solo un'elaborazione ideologica, una soluzione che non faccia pensare a un ritorno a Bush e una comunicazione esterna coerente. Obama rinuncerà alla politica neo-kissingeriana d'inizio mandato, ma starà attento a non ripetere gli errori idealisti di Jimmy Carter (che in nome dei diritti umani consegnò l'Iran agli ayatollah).
La nuova dottrina di Obama, anticipata dal Wall Street Journal, è una via di mezzo, la sola pragmatica, l'unica possibile: fare pressioni democratiche sui regimi amici e aiutare i dissidenti a rovesciare quelli nemici. Non è una novità: più che il testo del Cairo 2009 andrebbe riletto il discorso d'inaugurazione del secondo mandato di George W. Bush del gennaio 2005. Lì c'è la nuova dottrina Obama e il prossimo discorso del Cairo.

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