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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2011 alle ore 08:13.

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La divina commedia di una capitaleLa divina commedia di una capitale

Quando dissi l'ultima battuta, la battuta finale: "Adda passà 'a nuttata", e scese il pesante velario, ci fu un silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile, tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali del golfo mistico che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco, tutti piangevano, e anch'io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti».

Come sempre, Eduardo lo aveva detto col minimo di parole e di gesti. Gennaro Jovine è un personaggio che straparla, ma la sua forza è silenziosa, sta tutta nell'abito con cui riappare in scena al secondo atto, scampato a tredici mesi di deportazione: «Il berretto è italiano, il pantalone è americano, la giacca è di quelle a vento dei soldati tedeschi ed è mimetizzata. Il tutto è unto e lacero». Il suo vestiario è il riepilogo della guerra mondiale, vincitori e perdenti, indossato da un perdente consapevole e frastornato la cui testa pensante - il suo berretto: sono dettagli simbolici che Eduardo premedita con cura - rimane italiana. Gennaro esibisce quel vestito «come se fosse una gloriosa bandiera di reggimento». È sconfitto ma non vinto: nella sua famiglia rovinata da una ricchezza improvvisa e disonesta, nel basso che è sempre un basso ma ora ha gli stucchi dorati sul soffitto a volta, Gennaro porta i segni visibili del passato sofferto, ma desidera il futuro proprio perché sa che la guerra non è finita: e lo ripeterà fino all'ultimo, anche con quella frase proverbiale che tanto era spiaciuta al suo amico Ricci.

Nel 1950 Napoli milionaria! apparve da Einaudi, primo volume del suo teatro completo. Leggendola stampata, Corrado Alvaro ebbe l'impressione di cogliere finalmente il segreto di Eduardo, il suo "tipo umano" e anche il suo limite: che «si potrebbe chiamare convenzionalità o ingenuità. Ma è l'ingenuità dei personaggi di un certo rilievo. Proprio questo fa impressione in alcune personalità che si immaginano complesse: il limite, cioè la concezione precisa del bene e del male, che è il limite stesso della gente semplice e di non grande intelletto». Il protagonista della prima commedia nuova di Eduardo, la sua commedia della guerra non finita, portava la complessità e l'ingenuità affiancate nel suo nome e cognome: Gennaro come il napoletano per antonomasia, sottile e senza fondo, Jovine come uno che al principio sembra non riuscire a farsi adulto, e poi ricompare come un adulto rifatto giovane da un'esperienza che lo ha falciato dentro.

Quando Primo Levi entrò in rapporti con casa Einaudi, il primo libro che chiese di acquistare fu proprio Napoli milionaria! In quel volumetto dalla copertina verde-acqua scoprì che - proprio come accadeva a lui nel sogno che lo tormentava ad Auschwitz tutte le notti - anche l'ex deportato Gennaro Jovine non trovava, tornando a casa, nessuno disposto ad ascoltare il racconto degli orrori che aveva visto con i suoi occhi: gli amici, la moglie, i figli, tutti gli voltavano le spalle distratti o infastiditi. Questa intuizione di Eduardo fu un colpo di genio: ma fu anche il suo modo di portare sulla scena la metafora di un Sud che non riesce a dire la propria esperienza, e quando pure arriva a dirla non trova udienza nemmeno in se stesso - in una parte di sé. Napoli sa tutto, ma rilutta a specchiarsi in ciò che sa; lo aveva già detto Leopardi nella Ginestra composta «su l'arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo»: «Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco».

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