Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2011 alle ore 09:04.

My24

Non si tratta solo di favorire la crescita economica, si tratta di alimentare in modo sostanziale il progresso sociale e morale di una nazione e di un continente. Non è un caso se l'Unione europea ha più volte riconosciuto l'importanza che l'imprenditorialità riveste nella definizione stessa dell'Europa.

Una prova evidente di questo apporto non solo economico è quello straordinario laboratorio che è stato la Olivetti di Ivrea, in cui ho avuto l'onore di essere tra gli interpreti della visione di Adriano Olivetti. Un'utopia, secondo alcuni. Un progetto d'impresa vincente, secondo me, ancor oggi innovativo, capace di coniugare valore sociale e produzione, capace – cito solo un dato – di far crescere in poco più di un decennio la produttività del 500% e il volume delle vendite del 1300%.
Tempi lontani. Tempi in cui l'Italia, con i suoi imprenditori, riscopriva il suo sentirsi libera e proiettata nel futuro. Tempi in cui fare impresa sembrava la riscoperta del destino di un popolo; in cui migliaia di piccole e medie aziende nascevano nel solco lontano, ma mai sopito, dello spirito di innovazione delle botteghe rinascimentali.

Erano gli anni del boom, anni di crescita economica e di coesione sociale. Ed erano gli anni in cui operava ancora mio padre Rodolfo. È a lui che ho scelto di dedicare questa cattedra. E non solo per l'affetto, la gratitudine e l'amore di figlio che ancora gli porto. Ma soprattutto perché, per me, lui più di chiunque altro rappresenta il migliore spirito imprenditoriale di un'epoca. Quella del dopoguerra. O meglio dei due dopoguerra italiani.
Perché la compagnia italiana “Tubi metallici flessibili” nasce nel 1921 e poi rinasce nel '45. Mi diceva, mio padre: «Non basarti sui conti che ti porta il ragioniere, guarda solo i saldi delle banche. Se il saldo positivo si è incrementato vuol dire che hai guadagnato, se è diminuito vuol dire che hai perso. Tutto il resto sono diavolerie». Aveva un pragmatismo economico da ingegnere, papà. Ma soprattutto un'ideologia del lavoro come perno centrale della vita e della famiglia, così come un naturale senso di guida, anche nelle vicende umane e personali, dei suoi collaboratori. In lui ricordo la ferrea volontà di costruire e ricostruire, di fare impresa, di creare ricchezza, di migliorare le condizioni di vita proprie e della comunità in cui viveva.

L'affievolirsi in Italia di questo spirito di iniziativa deve necessariamente attrarre l'attenzione di chi ha davvero a cuore il futuro del nostro Paese. E se la politica è assente, l'iniziativa deve partire da qui, da queste aule, dalla società civile. La forza creatrice dei nuovi imprenditori dei Paesi emergenti ha dimostrato, in questo primo decennio del nuovo secolo, che le previsioni dell'ultimo Schumpeter di una crisi irreversibile delle risorse imprenditoriali erano errate. La spinta dell'impresa continua a produrre sviluppo in giro per il mondo, anche se la civiltà borghese dei tempi dei Buddenbrook è scomparsa da un bel po'.
È tempo che quella spinta torni ad essere vitale anche da noi. Per questo siamo qui. Per aiutare a rendere di nuovo fertile il terreno comune, in modo da consentire a nuove imprese e nuove iniziative di poter germogliare; per dare un contributo, attraverso l'affermarsi di una nuova imprenditorialità, alla rigenerazione, non solo economica, ma anche civile e morale, del Paese. È un modo, anche questo, per non rassegnarci a un lento e insopportabile senso di declino.

Questo articolo è un estratto dell'intervento che Carlo De Benedetti terrà oggi pomeriggio alla Bocconi di Milano per l'inaugurazione della cattedra Rodolfo De Benedetti

Shopping24

Dai nostri archivi