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Questo articolo è stato pubblicato il 07 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Scriveva già Margaret Mead: «La struttura sociale di una società e il modo con cui è strutturato il suo apprendimento... determina, ben al di là del contenuto concreto dell'apprendimento, sia come gli individui impareranno a pensare sia come verranno condivisi e usati i depositi culturali, la somma dei singoli pezzi di abilità e conoscenze».
Costruire una "testa ben fatta" non è pensabile solo lavorando sulle conoscenze senza mettere in campo, contestualmente, forme di esperienza che quelle conoscenze integrino in abilità più complessive.

Nei processi di insegnamento e di apprendimento l'attenzione ai contesti – dal sociale all'economico al politico – e il modo con cui i diversi messaggi vengono costruiti e trasmessi, sono persino più importanti, in prospettiva per gli studenti, dei singoli contenuti dell'istruzione.
È imparando dai contesti come esperienza di vita, che sa intrecciare sapere, fare, interpretare, relazionarsi, che si acquisiscono competenze «incomparabilmente più importanti per la vita futura» (Bateson).
Ed è su questo terreno che la nostra università è normalmente carente.
La vera formazione – ben distinta dalla semplice istruzione – non sta nell'immagazzinare conoscenze e regole, ma nella libertà appresa di muoversi al loro interno, nel maneggiare modelli e, al contempo, nell'imparare a modificarli, fino a creare quella duttilità di testa che porta alla "sapienza" delle cose e alla flessibilità del loro uso.

Per arrivarci occorre ripensare a fondo gli "ambienti" in cui lo studente consuma almeno cinque anni della sua vita, perché se è vero che il successo dell'università, al contrario del resto della vita, è dato dalla sua conclusione, non può essere che questa sia racchiusa semplicemente in un titolo. Non si può uscire dall'università semplicemente come "geometri" del mestiere che si è scelto, senza avere una strategia più generale che non condanni a priori al rischio di una nicchia ecologica.

Oggi, e ancor più domani, il mondo della competizione senza confini, assume le connotazioni di una guerra non convenzionale, fatta di mobilità, diversioni, tattiche e come tale non è modellizzabile una volta per tutte.
Va recuperata, navigando tra i saperi disciplinari, la messa in discussione di ciò che è dato per scontato e l'anticipazione di pratiche operative che aprono alle idee e ai progetti, l'uso di una forma di intelligenza "ricurva", meno strumentale e più dialogante. Una intelligenza in grado di assecondare l'instabilità dei contesti, di muoversi cambiando piani di appoggio e traiettorie: in una parola il sapere, cumulativo e provvisorio insieme, che abilita a ridiscutere le acquisizioni e a non farsi sconfiggere dagli eventi imprevisti.

Una università di questo tipo avrà meno a cuore inquadramenti e concorsi, incarichi e scaramucce di scuola e corrente; l'attenzione morbosa al destino della propria corte e il presidio della governance.
Occorrerebbe poter misurare, oltre alla produzione latu sensu scientifica e alla mistica dell'impact factor anche il prodotto di quel lavorio complesso che attiene più al concetto di cura e orientamento pratico "al dopo" che è, in fondo, il vero successo di un percorso universitario.
Meno accademia, se si vuole, e più sostanza. Con una dose corroborante di "esprit de finesse".
Pier Luigi Celli è amministratore delegato e direttore generale dell'Università Luiss Guido Carli di Roma

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