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Questo articolo è stato pubblicato il 24 gennaio 2012 alle ore 07:52.

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Oggi la media europea della percentuale dei laureati nella fascia 25-34 anni è del 32%, l'Italia è ferma al 19%, anche se l'obiettivo è quello di raggiungere il 40% entro il 2020. Vero è che con il vecchio ordinamento, oltre che meno laureati, si avevano alti tassi di abbandono. Si otteneva il "pezzo di carta" a 28,4 anni di media; ora si è scesi a 26 (per il primo livello) e a 27,1 (per il secondo). Nel 2000 i laureati sono stati 161mila; nel 2010 erano 208mila, corrispondenti a 289mila lauree (incluse quelle magistrali).

La riforma ha aiutato a compiere dei passi in avanti, ma si è rivelata una grande "occasione persa" per le università: «In assenza di valutazione e di controllo – incalza Gavosto – gli atenei autonomi hanno finito per privilegiare obiettivi interni al sistema universitario e non la qualità dell'offerta. Tutti continuano a offrire insegnamenti un po' su tutto. Non a caso il numero dei docenti è aumentato relativamente più di quello degli studenti».

Sono cinque le proposte che la Fondazione offre al dibattito e, in primis, al governo Monti. Punti quanto mai decisivi per la "crescita": solo innalzando il livello culturale del capitale umano della popolazione (con le lauree triennali) e con una classe dirigente di alta qualità (con le lauree magistrali) si contribuirà a far progredire il sistema Paese.

1) Differenziare il sistema universitario. Gavosto: «Distinzione più più netta tra formazione di base triennale (liberamente accessibile e con vasta diffusione territoriale), formazione professionalizzante (specifica ad alcune realtà, con più gradi di libertà gestionali e minor finanziamento pubblico), formazione magistrale/dottorale. E quest'ultima, perché non erogarla solo in alcune sedi selezionate e accreditate sulla base della loro capacità di ricerca, ad accesso limitato, con forte finanziamento pubblico?». Cruciali, insomma, i fondi per il diritto allo studio.

2) Le università debbono conseguire un accreditamento basato sulle risorse disponibili ed essere monitorate centralmente, tanto negli input quanto negli output.

3) Il finanziamento degli atenei sia basato su costi standard per studente, che tengano conto delle oggettive differenze tra aree disciplinari. «Le università – secondo Gavosto – debbono "interiorizzare" un sistema di incentivi che le orienti a trasformare i diplomati in buoni laureati nei tempi dovuti e senza abbassare la qualità della formazione. È la pre-condizione per consentire la progressiva liberalizzazione delle tasse universitarie».

4) La differenziazione degli atenei deve essere accompagnata dalla differenziazione delle carriere lavorative del personale docente universitario. Come dire: basta con il principio che «tutti sanno fare tutto, sostituendolo con quello della verifica periodica dei risultati».

5) Le lauree a ciclo unico non hanno ragione di esistere dal punto di vista del processo formativo e nemmeno da quello del funzionamento di un mercato del lavoro competitivo. Si scorpori medicina, per esempio, sul modello delle medical schools di altri Paesi. «Nel loro ordinamento attuale – conclude Gavosto – le lauree a ciclo unico sembrano rappresentare esclusivamente uno strumento di sopravvivenza di canali di accesso socialmente privilegiati».

francesco.antonioli@ilsole24ore.com

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