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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2012 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 10 febbraio 2012 alle ore 06:40.

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È una proposta che non si pone in alternativa al sistema di accreditamento e di valutazione centralizzato previsto dalla riforma Gelmini e confermato dall'attuale governo. Ne rappresenta piuttosto un complemento. Essa mira a responsabilizzare gli studenti, mettendoli in condizione di esercitare una scelta consapevole, liberi dal vincolo economico rappresentato dalle risorse della famiglia d'origine.
Per ottenere questo risultato la proposta fa perno su un sistema di prestiti per gli studenti con rimborso proporzionale al reddito futuro, garantiti da risorse fornite dagli stessi atenei, senza gravare sul bilancio pubblico. Gli atenei beneficerebbero di maggiore autonomia gestionale e della libertà nel fissare le tasse universitarie su livelli più prossimi al costo del servizio offerto.

Questa maggiore autonomia, unita alle maggiori risorse portate dagli studenti, consentirebbe agli atenei di costruire un'offerta formativa di maggiore qualità, che genererebbe i maggiori redditi futuri necessari a rimborsare i prestiti iniziali. Così, il valore delle diverse lauree, al di sopra del minimo necessario per ottenere l'accreditamento, non sarebbe certificato da una delibera ministeriale, ma dalle scelte di studenti dotati di una effettiva facoltà di scegliere. Facoltà di cui oggi, di fatto, non dispongono.
Chi si oppone all'abolizione del valore legale dei titoli di studio teme che questa porterebbe a un "far west educativo", esponendo i cittadini a sedicenti professionisti senza alcuna preparazione e mettendone a rischio, nei casi più estremi, la salute e la sicurezza. Ma l'obiezione si fonda su un fraintendimento. Nessuno contesta infatti che per alcune professioni, come per esempio ingegneri, medici o piloti di aereoplano, sia necessaria la garanzia di un livello minimo di qualità.

Come ha chiarito Alessandro Schiesaro su queste pagine (Il Sole 24 Ore del 26 gennaio e 3 febbraio, ndr), l'abolizione del valore legale del titolo non elimina la necessità di un esame di Stato per l'accesso ad alcune professioni, né quella di un accreditamento degli atenei e dei corsi di laurea da parte dell'Anvur (come previsto nel Decreto del 20 gennaio). Ma, al di sopra di quel livello minimo, i titoli di studio non sono tutti uguali, e non dovrebbero essere trattati come tali. Con una maggiore attenzione alla sostanza, invece che alla sola forma (in primis da parte dello Stato), la tutela dei cittadini sarebbe semmai aumentata, e migliorerebbe la qualità dei servizi a loro offerti dalla Pa: le commissioni giudicatrici in un esame di Stato o in un concorso pubblico avrebbero la possibilità di adottare i criteri di valutazione che ritengono più idonei, con obblighi di trasparenza e responsabilizzazione a posteriori sui risultati.

Il controllo statale sulle lauree ha peraltro un senso quando il cittadino-consumatore ha molta difficoltà nel valutare la qualità del servizio offerto dal professionista e, allo stesso tempo, quando un servizio di qualità scadente ha conseguenze durature e difficilmente rimediabili, oppure quando le conseguenze negative non ricadono solo su di lui ma anche su altri. Ma guai a credere che il controllo possa essere perfetto: se distoglie il cittadino dall'antico monito caveat emptor, rischia di arrecare più danni che benefici.

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