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Questo articolo è stato pubblicato il 24 gennaio 2013 alle ore 06:48.
L'ultima modifica è del 24 gennaio 2013 alle ore 07:52.

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Insieme alle suggestioni della Nuova frontiera dei Kennedy, ebbero un ruolo importante per Agnelli gli ideali europeisti, che d'altronde erano già stati di suo nonno sin dalla fine della Grande Guerra. Appoggiava da tempo il Movimento federalista europeo e aveva voluto nel 1966 Jean Monnet a presiedere la Fondazione intitolata al Senatore Agnelli.

L'atlantismo era l'altro suo punto di riferimento. In America, che considerava un laboratorio di nuove idee, aveva messo solide radici: «A New York - diceva - mi sento di casa come a Torino». E alla nostra ambasciata sapevano che si poteva contare all'occorrenza sui buoni uffici dell'Avvocato per contattare alcuni personaggi di rilievo o avere valutazioni appropriate sulla politica economica americana.

In amicizia col segretario di Stato Henry Kissinger, l'Avvocato gli aveva spiegato nel 1975 (quando era presidente della Confindustria e in buoni rapporti con Luciano Lama) che, per il governo italiano, era indispensabile coinvolgere il Pci di Berlinguer in un dialogo costruttivo per la soluzione di una pesante crisi economica e la difesa contro il terrorismo. «Kissinger - dirà l'Avvocato - è più elastico di quel che si crede. È rigoroso come uomo di destra, ma capiva tutto, capiva l'Italia...».

Certo, era stato duro per lui smorzare, l'anno dopo, le polemiche sulla partecipazione dei libici di Gheddafi alla ricapitalizzazione della Fiat, ma era riuscito a farlo in un incontro riservato con George Bush, allora a capo della Cia, e il vicepresidente Walter Mondale.

Avendo difeso il Sistema monetario europeo contro le ricorrenti manovre della Fed al ribasso del dollaro, gli era stato proposto un seggio all'Assemblea di Strasburgo; ma aveva declinato quest'offerta, osservando che era un grave errore considerare il Parlamento europeo espressione di "élite politiche".

Severo nel giudizio sulla mancanza di polso di Carter, gli era piaciuto ancor meno Reagan, sebbene alcuni autorevoli consulenti della Casa Bianca provenissero dalla Trilaterale di cui l'Avvocato era stato tra i fondatori. D'altronde era convinto che, se a Mosca prima o poi sarebbe avvenuta una svolta, non sarebbe dipesa dalla politica americana di "roll back" bensì dall'anchilosi del sistema economico sovietico. Ma pure con i leader europei (fatta eccezione per Schmidt), Agnelli non era in sintonia: «Troppo assertiva e imperiosa» la Thatcher; e «tornato a battere la strada delle statalizzazioni» Mitterrand. Apprezzava invece il presidente della Commissione Europea Delors, fautore di investimenti in ricerca e innovazioni per fronteggiare il Giappone.

Dopo l'Ottantanove, aveva auspicato che la Ue assecondasse la rinascita dei Paesi ex comunisti dell'Est; e, senatore a vita dal 1991 (nominato da Cossiga), s'era impegnato affinché il governo Andreotti-Carli firmasse il trattato di Maastricht, sperando che la Gran Bretagna aderisse all'euro. Dopo l'estinzione dell'Urss, aveva simpatizzato con Clinton per i suoi programmi di espansione delle frontiere della democrazia, osservando comunque che il nuovo ordine mondiale non doveva essere espressione di "un'America imperiale" e perciò auspicato che l'Europa varasse una propria politica estera e della sicurezza.

Nel suo ultimo discorso, il 21 gennaio 2002 alla Biblioteca del Senato, aveva affermato che era possibile governare la globalizzazione qualora si fossero adottate soluzioni che coniugassero gli sviluppi dell'economia con la solidarietà per i Paesi più depressi, anche per scongiurare, dopo l'esplosione del terrorismo, «un conflitto tra le civiltà», tramite «un dialogo costante per promuovere la convergenza su valori etici e politici condivisi da tutti».

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