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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2013 alle ore 06:50.

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Squinzi si considera un uomo dei laboratori di ricerca e delle fabbriche. È sempre stato lontano dal mondo dei Salotti Buoni finanziari, dei patti di sindacato, delle grandi banche e della grande industria legata a doppio filo con i politici. In molti, in ambito confindustriale e politico, hanno guardato a lui per tanti anni come se fosse l'antitesi di tutta questa compagnia di giro molto italiana e ormai prossima al tramonto.

(...) La Confindustria di Squinzi rappresenta una netta cesura con il passato. Squinzi è uomo del dialogo con i sindacati, attento alle questioni sociali, europeista convinto della prima ora, sempre attento ai temi del lavoro. Da quando si è insediato, il nuovo presidente di Confindustria si è subito adoperato per riformare un sistema associativo sprecone e pletorico (...), mettendo limiti alla casta dei confindustriali di professione. Squinzi si è battuto, e non intende demordere, per la sopravvivenza delle fabbriche e del manifatturiero, per favorire la ricerca e lo sviluppo, per far sì che lo Stato paghi i suoi debiti alle imprese in affanno (oltre 100 miliardi di euro, una tragedia nazionale), per limitare la burocrazia inutile e soffocante. Si è mostrato assai critico nei confronti dell'austerità fine a se stessa perseguita da Mario Monti, a buon diritto accusato di voler fare "macelleria sociale" e di non adoperarsi abbastanza per la crescita economica.
Squinzi non crede nella totale autoregolazione del mercato. Chiede, anzi, che il governo finalmente elabori e attui una vera politica industriale, come negli altri grandi Paesi. Ha messo nel cassetto le battaglie della vecchia Confindustria (...) contro la politica in quanto tale, chiedendo anzi ai politici di fare il loro mestiere. E non ha pronunciato nemmeno una sillaba per limitare i diritti dei lavoratori (per Squinzi l'abolizione dell'articolo 18 non è mai stata una priorità) o per chiedere mani libere sui licenziamenti. Ha anche firmato un innovativo accordo sulla contrattazione, che in futuro renderà quasi impossibile un trucchetto usato da molti: escludere dal tavolo delle contrattazioni sindacali la Cgil per poter firmare i contratti con le più accomodanti Cisl e Uil. Addirittura, in alcune occasioni è stato proprio lui, il presidente di Confindustria, a difendere l'esistenza dei contratti nazionali collettivi di lavoro, e tutto questo senza essere né tantomeno voler apparire un uomo di sinistra. Neppure vagamente. Squinzi è, anzi, un cattolico di centro, attento alle implicazioni sociali dell'impresa.

La Confindustria dell'era Giorgio Squinzi potrebbe contribuire a portare al centro dell'agenda del Paese le ragioni di quelle "imprese contadine" di cui abbiamo parlato in apertura di questo capitolo. Integrandole con le ragioni dell'Europa. Perché gli imprenditori alla Squinzi (la sua Mapei è internazionalizzata al 70%) stanno nei flussi globali, capiscono qual è il vero interesse nazionale del Paese, il valore della credibilità del sistema.(...)Al termine del viaggio nella disfatta del Nord, vogliamo fare una modesta proposta fantapolitica (...): perché non è possibile creare una piattaforma politica che promuova le istanze dei produttori ed elimini le rendite di posizione di coloro che nulla generano e tutto succhiano? Questa piattaforma - che dovrebbe essere assolutamente trasversale rispetto alla carta geografica - sarebbe l'unica salvezza possibile per l'Italia. E potrebbe venire elaborata proprio dal Nord. Che così, finalmente, potrebbe partorire qualcosa di nuovo e rallentare la sua corsa verso la disfatta.

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