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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2014 alle ore 08:25.
L'ultima modifica è del 05 luglio 2014 alle ore 09:40.

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Ma documenti, intercettazioni, email, sms e testimonianze raccolte dal nostro giornale - oltre che una sentenza di un tribunale civile di Londra - indicano che un'intermediazione c'è stata, e che non ha interessato solo un "broker" nigeriano di nome Emeka Obi, ma anche due italiani. Ci riferiamo a Gianluca Di Nardo e Luigi Bisignani, il primo con una storia di insider trading in America e il secondo che ha patteggiato in Italia una condanna per la vicenda P4. La cosa ancor più significativa è che, nel corso di oltre un anno di trattativa per l'acquisizione dell'Opl-245, con l'obiettivo di strappare una commissione ultramilionaria i due hanno attivato il vertice dell'Eni.

Intercettazioni fatte casualmente nell'ambito della cosiddetta inchiesta P-4, in un contesto completamente scollegato da quello di interesse per i magistrati napoletani, documentano che Bisignani aveva chiesto al suo amico Scaroni di aprire le porte dell'Eni al duo Obi-Di Nardo e l'Ad dell'Eni aveva assegnato al suo braccio destro operativo Claudio Descalzi il compito di occuparsene.
Ecco come Di Nardo spiega la cosa nella sua deposizione: «Seppi che un mio contatto africano, Dan Etete, già Ministro del petrolio in Nigeria, voleva cedere una concessione petrolifera… e mi rivolsi al Bisignani perché era noto che era legato ai vertici dell'Eni». Bisignani ha poi confermato: «In buona sostanza il Di Nardo mi chiese se potevo intercedere e parlarne con Scaroni. E Scaroni mi disse di andare… da Descalzi… Il Di Nardo avrebbe lucrato una mediazione se l'affare fosse andato in porto e anche io sicuramente avrei avuto la mia parte». La conferma è venuta anche da Scaroni: «Io presentai il Bisignani al Descalzi che è il responsabile del settore Oil, il soggetto Eni che doveva occuparsi della vicenda. Ma tale trattativa non è andata a buon fine». A sottolineare che l'intermediazione non aveva dato risultati era stato anche Bisignani: «La cosa si è poi arenata».
Lo ripete l'Eni anche oggi: «Le negoziazioni dirette con Malabu, che avvennero anche con contatti tramite consulenti e un agente, non andarano a buon fine». Ma la realtà è che Malabu ha indirettamente ricevuto un pagamento di un miliardo e 92 milioni di dollari. E poche settimane fa è stata costretta a pagarne 80 a Emeka Obi. Una parte di quegli 80 milioni, oggi parcheggiati in Svizzera, Obi ha poi ammesso essere destinata a Di Nardo. Di questo il nigeriano ha parlato nel corso di una causa contro Etete da lui intentata a Londra con il supporto finanziario del "partner" Di Nardo, perché Etete si era rifiutato di pagare l'intermediazione.

Per ricostruire la vicenda in dettaglio, è utile partire proprio dalla deposizione di Obi a Londra. In quella deposizione Obi spiega che l'intermediazione per l'Opl-245 aveva coinvolto anche Descalzi: «È stato cruciale per me essere in contatto diretto e frequente con i dirigenti dell'acquirente (l'Eni, Ndr) e mi sono spesso incontrato o ho parlato con il signor Casula, il signor Descalzi… Il rapporto tra me e il signor Descalzi è gradualmente diventato più stretto nel corso del negoziato. Ci incontravamo abbastanza frequentemente per colazione o per un drink la sera e una volta mi ha anche invitato a casa sua». A provare queste asserzioni sono decine di testi di sms e email tra i due depositati in tribunale.
Nella sua deposizione, Obi lascia intendere che è stata la stessa Eni a far sì che Obi-Di Nardo si inserissero tra il venditore-Malabu e il potenziale acquirente-Eni firmando un confidentiality agreement con Energy Venture Partners Ltd, Evp, la società di Obi, il 24 febbraio 2010. Con quell'accordo l'Eni si impegnava a «non contattare alcun dipendente o agente di Malabu senza il consenso di Evp».
A rendere quell'accordo anomalo erano alcune incertezze sul mandato di vendita. «Eni aveva richiesto come condizione per sedersi al tavolo negoziale che Evp le producesse evidenza del mandato di Malabu. Evp produsse evidenza di tale incarico e i negoziati iniziarono» sostiene oggi l'Eni. Ma in un documento riassuntivo chiamato "Processo di ingaggio sull'OPL 245" inviato il 4 marzo 2010 a Descalzi si legge che l'Eni aveva semplicemente «visionato fotocopia non integrale della lettera di incarico da Malabu, firmata da Dan Etete». Il problema aggiuntivo è che, formalmente, Etete non era il proprietario di Malabu, perché al fine di mascherare il fatto di aver dato una concessione a una società da lui stesso controllata quando era Ministro del petrolio, si era sempre servito di teste di legno. Etete risultava essere un semplice consulente di Malabu, ma a Il Sole 24 Ore non risulta che Eni abbia mai chiesto e visionato la procura dei proprietari formali che gli desse titolo per affidare a qualcun altro la cessione dell'unico bene della società.

Gli stessi documenti interni Eni dimostrano la consapevolezza che l'intera situazione fosse problematica. In una nota di due diligence del maggio 2010, alla voce «Descrizione dei particolari rischi emersi o individuati», si legge: «Il potenziale partner della Joint Venture… non risulta svolgere alcuna attività, non ha o ha scarso personale e il suo indirizzo commerciale è solo una casella postale". Questo su Malabu. Su Etete invece si sottolineava che «nel 1998, è stato condannato in un procedimento penale in Francia per riciclaggio di denaro».
"Eni ha svolto nella prima fase negoziale con Malabu una due diligence", spiega oggi la società. "Tale due diligence non forniva certezza circa la riconducibilità di Malanu a Etete come proprietario anche se evidenziava dubbi al riguardo. La necessita' della due diligence fu sucessivamente superata dato che nessun accordo e' stato sottoscritto con Malabu".

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