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Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2014 alle ore 06:39.
L'ultima modifica è del 01 novembre 2014 alle ore 13:58.

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Kathy MatsuiKathy Matsui

Era in avanzata attesa del secondo figlio quando, nel 1999, lanciò uno studio pionieristico intitolato Womenomics: buy the female economy. Da poco ha pubblicato il quarto report sul tema, intitolato Womenomics 4.0: Time to walk the talk. Nel frattempo la parola che fonde donne ed economia è entrata nel linguaggio comune, dopo che l'Economist la sponsorizzò nel 2006 aprendo la strada a un gran numero di libri e siti sul crescente ruolo socio-economico delle donne e sull'effetto positivo sull'intera struttura economica delle politiche di promozione femminile nel mondo del lavoro.

Kathy Matsui, 49enne californiana con origini familiari giapponesi, due figli, un tumore mammario superato, è chief Japan equity strategist e co-head Asia Investment Research alla Goldman Sachs. Il report di 15 anni fa della giovane analista approdata da poco alla corte della banca d'affari Usa a Tokyo fu accolto all'epoca con scetticismo dalla clientela (per oltre il 99% costituita da uomini). Di recente, invece, il premier giapponese Shinzo Abe l'ha citata per nome in uno scritto per il Wsj, per sottolineare che la Womenomics sarà parte vitale dell'Abenomics e che le donne restano «la risorsa più sottoutilizzata». Quella di Abe è parsa una conversione, visto che è il leader di uno schieramento conservatore ancora accusato di essere "sessista" (come testimoniato di recente da una serie di incidenti in assemblee politiche) e di un Paese al 105° posto su 136 per "gender gap" secondo il Wef. Dal Giappone, quindi, scatta il rilancio internazionale di un "concept" che fa fatica a essere tradotto in politiche efficaci, che ora si chiamano "di genere". Non è un caso, visto che - sottolinea Matsui - la motivazione economica della Womenomics è più spiccata che altrove in Giappone, dove la popolazione pare destinata a calare del 30% entro il 2060, quando gli anziani saranno il 40%, mentre già oggi il pensionamento dei baby boomers crea una situazione vicina alla piena occupazione.

«La chiusura del gap di genere sul mercato del lavoro (se il tasso di occupazione femminile salisse dall'attuale - già record - 62,5% all'equivalente maschile dell'80,6%) creerebbe una spinta potenziale al Pil del 12,5%», afferma, sottolineando che il "concept" può funzionare anche nei Paesi europei ad alta disoccupazione e bassa partecipazione femminile, come l'Italia. La potenzialità di creare un circolo virtuoso (più lavoratori - più redditi familiari - più consumi - più risorse aziendali per investimenti e salari) resta analoga nell'allargare la "torta" dell'economia con benefìci sociali ad ampio raggio. Per inciso, non è un caso che i Paesi dove le donne hanno più difficoltà a lavorare sono anche quelli a minore tasso di fertilità (Corea, Giappone e Italia): nei Paesi avanzati, più le donne lavorano, più fanno figli e non viceversa. Qui sta una delle due principali ragioni della "conversione" di Abe, ossessionato dal calo della natalità. La seconda ragione (forse preponderante) è che, in vista di acute carenze di manodopera, ogni donna in più che lavorerà rappresenterà un immigrato in meno.

Matsui riconosce alcuni progressi fatti nella direzione giusta, sia pure spesso parziali: ad esempio, il governo si è messo a raccomandare alle aziende di rendere pubblici una serie di dati "gender-related" (ad es. sulle posizioni di management), ma questo resta facoltativo mentre dovrebbe essere reso «obbligatorio e standardizzato». Lei è una analista di Borsa - ha fatto felici molti investitori selezionando decine di titoli di società a performance superiori, in quanto attive in settori connessi al crescente ruolo economico-sociale delle donne - , non è una "femminista": vede difficoltà in una generalizzazione obbligatoria delle "quote rosa" e sostiene piuttosto l'idea di incoraggiare le imprese a fissare target, sul cui raggiungimento rendere i manager responsabili. In politica, però, sostiene le quote a spada tratta: «Inaccettabile che le donne alla Dieta siano solo l'8% del totale!».
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