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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2014 alle ore 09:18.
L'ultima modifica è del 26 luglio 2014 alle ore 10:35.

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I franco-indiani di Arcelor Mittal, a Taranto, sono già venuti due volte. «Certo - osserva Fausto Durante, responsabile per l'Europa della Cgil - bisognerebbe vedere quale delle due anime che coesistono nel gruppo franco-indiano prevarrebbe. Arcelor aveva una governance concertativa con i sindacati e i lavoratori negli organi di controllo e di indirizzo, molto interessante per un caso come quello di Taranto. Mittal, invece, è durissima con i sindacati e i governi». A Taranto non è ancora venuto nessuno della Arvedi, che fra gli italiani è il più liquido. Completata la due diligence dei franco-indiani (entro fine agosto), in acciaieria dovrebbero entrare i tecnici degli altri gruppi, italiani e stranieri, interessati. «L'auspicio - dice Biagio De Marzo, voce dell'ecologismo non radicale e settario di Taranto e dal 1971 in Italsider - è che, chiunque faccia una offerta nei prossimi mesi, comprenda che questa acciaieria vive soltanto se soddisfa il proprio gigantismo: il ciclo integrale sta in piedi con almeno 8,5 milioni di tonnellate all'anno. Il livello standard minimo raggiunto dai Riva. Una punta che ai tempi delle Partecipazioni Statali fu toccata soltanto per un mese nel 1976. Sappiamo bene che volumi più bassi significherebbe una violenta riduzione del personale». De Marzo è un ingegnere che, fra 1979 e 1981, è stato il responsabile tecnico della parte italiana nella ristrutturazione fatta da Nippon Steel: «Adesso l'Ilva è come un corpo dormiente. Non solo di notte, ma anche di giorno. Nella fabbrica sembra prevalere l'immobilismo. Molti cercano di assumersi le minori responsabilità possibili. Un corpo gigantesco, frutto della maledizione del raddoppio di dimensione voluto dall'Iri fra il 1971 e il 1974, quando nessuno al mondo faceva più impianti così giganteschi. Il risveglio sarebbe amaro, se un ipotetico nuovo azionista decidesse di modificare l'equilibrio interno di questo gigante».

Il downsizing provocherebbe uno scenario complesso, che tutti - dal governo al commissario - vogliono scongiurare. Qui, nella notte di Taranto, il gigante dorme. Intorno a lui, per alcuni la realtà inizia a essere popolata dai fantasmi e dalle paure del cattivo sonno. L'asfissia finanziaria ha preso le forme del contagio sistemico. Roberto Galluzzo, titolare della Tecnogal Service di Brindisi (manutenzione e montaggio in impianti e in officina, un centinaio di addetti, 10 milioni di euro il fatturato ante crisi, ridotto l'anno scorso a sei), non prende nemmeno il fiato mentre snocciolo i suoi numeri: «197mila euro a marzo, 318mila a aprile, 626mila a maggio, 256mila a giugno e 290mila a luglio. Quasi mi vergogno a dirlo: a maggio sono riuscito a pagare solo la metà delle buste paga. A giugno, nulla. I mancati pagamenti dell'Ilva sono diventati un incubo».

Nelle sere di Taranto, mentre il gigante dorme, non sono mai tranquilli nei loro letti gli abitanti di Tamburi, il rione che si trova a ridosso dei parchi minerali. «Non mi capacito - dice Bruno Manghi, sociologo che qui a Taranto ha diretto fra il 1981 e il 1983 la Scuola del Sud della Cisl - come negli ultimi vent'anni non vi sia mai stato in alcuna agenda, nazionale e locale, lo spostamento degli abitanti. In tutto il mondo si fa così. Come fanno a dormire tranquille, le nostre classi dirigenti, senza pensare a questi nostri connazionali?». Dorme il gigante, dorme Tamburi, dorme Taranto, dorme l'Italia.

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