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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2014 alle ore 08:02.
L'ultima modifica è del 29 dicembre 2014 alle ore 09:35.

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Il problema, quindi, è soprattutto come trovare le risorse per “nutrire” una start up nella fase dello sviluppo. «Per far nascere una nuova impresa - spiega Francesco Lazzarotto, New project development manager di Warrant Group (società di consulenza specializzata nei finanziamenti europei, nazionali e regionali) - occorre avere almeno il 25% del capitale in tasca, mentre il resto si può ottenere attraverso finanziamenti pubblici agevolati».

L’esperienza di Lazzarotto spazia dalle piccole start up ai grandi gruppi. Una delle sue ultime operazioni, per esempio, ha consentito a Denso Manufacturing, gruppo che fa capo a Toyota e produce sistemi e componenti automotive, di ottenere più della metà dei 49,6 milioni di euro che il gruppo ha investito per potenziare la capacità produttiva dello stabilimento di San Salvo (Chieti) da istituzioni pubbliche (Invitalia e Regione Abruzzo) attraverso operazioni agevolate. Come devono comportarsi, dunque, le start up per avere credito?

«La gran parte dei bandi di finanziamento si basano sull’innovazione industriale - sottolinea Lazzarotto -, ma le idee da sole non bastano. Quindi occorre anche presentare un business model e un business plan ben definiti, per convincere il pubblico a darti credito e investire».

A parte le risorse, però, un handicap europeo (non solo italiano) rispetto agli Stati Uniti sullo sviluppo delle start up è anche nella testa delle persone. «In Europa - conferma Lazzarotto - la propensione al lavoro autonomo fra il 2009 e il 2012 è scesa dal 45% al 37%, mentre un paio di anni fa la stessa percentuale era del 51% negli Stati Uniti e addirittura del 56% in Cina. Negli Usa il 15-20% degli studenti partecipa, anche ai livelli di istruzione inferiori, a corsi di mini-imprenditorialità, poi decide di aprire un’azienda».

In Europa solo negli ultimissimi anni si è deciso che fosse necessario perseguire questa strada, sin dai primi gradi di istruzione. Poi nel nostro continente tre persone su quattro ritengono difficile avviare un’attività imprenditoriale, per la burocrazia e il carico fiscale.

Infine c’è il rischio di impresa, che può voler dire il fallimento, visto in modo diametralmente opposto. «Nel nostro Paese - conclude Lazzarotto - chi fallisce è messo in croce socialmente, è interdetto e non può fare impresa per un certo tempo. Negli Usa, invece, chi è fallito “onestamente”, per esempio perché colpito dalla crisi economica o strangolato dalla mancanza di credito, ha sempre la possibilità di ripartire. L’idea di fondo è che chi fa impresa per la seconda volta ha maggiori possibilità di sopravvivere di chi è alla prima esperienza».

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Numero e percentuale rispetto al totale delle nuove nate in quell’anno per anno di attività e tra parentesi l’anno di nascita della start up

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