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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2015 alle ore 09:31.
L'ultima modifica è del 06 gennaio 2015 alle ore 09:57.

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Successivamente l'idea che ogni stato fosse autosufficiente ha ispirato una politica economica che ha richiesto che ogni paese avesse un bilancio pubblico e una bilancia dei pagamenti in pareggio in modo da non avere necessità di importare risparmi dagli altri paesi. Quest'idea di uno “stato chiuso” risale alla filosofia politica di fine Settecento, ma è contraria alla logica di un'area integrata economicamente nella quale i capitali devono essere liberi di circolare cercando l'allocazione migliore, qualunque sia il pese di origine o di destinazione. Essere autosufficienti non è per sé affatto una cosa negativa.

L'enfasi tedesca su questo principio a livello sia individuale sia collettivo corrisponde a una forte etica intesa a evitare che individui consapevoli dei propri limiti – disposti a vivere al di sotto dei propri mezzi – evitino gli eccessi di un passato fatto di crimini, povertà, debiti e inflazione. Ma quando l'autosufficienza si pone in contrasto con l'interdipendenza, ripropone quella scelta tra guerra e pace che il cancelliere Kohl vedeva come il monito sempre attuale della questione europea. Non perché il sangue possa tornare a scorrere, ma perché scegliere tra autosufficienza e interdipendenza può riempire o al contrario svuotare lo spirito di cooperazione politica tra i paesi.Una volta imposta la regola dell'autosufficienza, la gestione della crisi ha assunto i tratti di un esercizio conflittuale. Accettare che la soluzione per i paesi in crisi fosse una deflazione che cancella il 20-30% del pil, ricorda la riduzione del territorio dei paesi sconfitti. I paesi in crisi vengono inoltre governati attraverso una troika, anziché un governo comune.

I prestiti all'inizio erano stati concessi a tassi punitivi, come se fossero riparazioni di guerra, benché avessero salvato le banche dei creditori. Tra i leader europei si è stabilita una gerarchia dei creditori sui debitori, benché entrambi fossero causa di squilibri. La narrazione della crisi è stata come in guerra quella dei vincitori. Come sappiamo la democrazia parlamentare è stata accantonata in alcuni paesi, le elezioni sospese, i referendum ripetuti, come se all'inferiorità economica corrispondesse sempre una minorità politica. Infine i governi dei paesi in crisi hanno giustificato ai loro elettori l'esigenza di riforme solo come l'imposizione di occupanti malevoli. Inevitabilmente il risentimento è aumentato e i negoziati sono diventati più animosi e distanti.

Non sorprende che questo fallimentare ritorno alle prerogative nazionali, porti al successo movimenti nazionalisti e anti-europei. È quella che io chiamo la prima “Guerra di Interdipendenza” europea. Ma perché è stata così trascurata l'interdipendenza economica? Forse perché siamo abituati a considerare importanti soprattutto le interazioni dell'economia reale – in realtà modeste - mentre ciò che è stato dominante è stata l'interdipendenza finanziaria. Gli squilibri tra posizioni estere nette di creditori e debitori dell'euro area sono quadruplicati in dieci anni e sono ora pari al 40% del pil dell'area. L'euroarea, in questo senso, è la regione più interdipendente dell'economia globale. Proprio per la sua natura, la crisi europea ha bisogno di soluzioni finanziarie – naturalmente viene in mente l'acquisto di titoli sovrani da parte della Bce – accompagnate tuttavia dal consapevole sostegno politico di tutti i governi, sia forti sia deboli. La scelta all'inizio del 2015 tra la vecchia logica dell'autosufficienza e quella dell'interdipendenza può essere il crinale della storia europea.

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