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Camilleri, il «peso» del successo e il dna degli italiani che cambia

Andrea Camilleri ha un dono raro. Che non è quello di saper scrivere alla sua maniera, non è la capacità di inventare una lingua che ha stregato i lettori dei suoi libri, e non è nemmeno, ancora, il modo rapinoso con il quale racconta lui storie orali, e tutti a pendere dalle sue labbra, dalla prima parola alla fine, sempre teatralmente perfetta: la voce catramata da milioni di sigarette e “suonata” da uno splendido accento siciliano che, se possibile, ne aumenta vigore e potenza affabulatoria; le pause studiate, il tono modulato a “rendere” il singolo passaggio. No: nonostante tutto questo, Camilleri ha qualcosa in più, un tocco magico con cui crea letteratura; sa rendere cioè letterario, all’istante, tutto ciò su cui posa la sua attenzione, la sua voce, la sua penna. La recente completa cecità gli conferisce ieraticità ulteriore: è davvero un Omero e un Tiresia contemporaneo.

Testimonia tutto ciò il suo ultimo libro, affidato con senso del tempo e delle cose non a un editore grande (e chiunque farebbe carte false pur di avere un suo titolo) ma a un grande editore, il siciliano Vincenzo Campo, che, con competenza e cura, ha cucito perfettamente, per le sue eleganti edizioni Henry Beyle, il regalo che Camilleri si è fatto per i 93 anni: uno struggente memoir (prezioso anche dal punto di vista bibliofilo, con carte giapponesi e varie edizioni in tiratura limitata, più un raffinato gioco di rimandi visivi)che si intitolaLa casina di campagna, presente già a Più Libri Più Liberi di Roma (la manifestazione chiude oggi) ma in libreria solo da gennaio.

Libro che riassume appunto, ed esemplifica, magnificamente, pur nella tristezza, la sorte toccata a Camilleri e il dono di cui dicevamo. La casina di campagna, infatti, è il teatro dei ricordi di infanzia e suo luogo del cuore: ed è l’ultima cosa di cui parliamo nella nostra conversazione, prima di salutarci. Camilleri lo fa con affetto e fragilità, dolore e nostalgia: quella casa, piena di avventure e sogni bambini, non è mai tornata in suo possesso. A intervista fatta e libro pronto, la realtà, poi, ha preteso anche di più: prima la casina distrutta quasi per intero dal maltempo, poi le ruspe che, in questi giorni, hanno dovuto completare l’opera. Ma Camilleri ha oltrepassato la trama banale della stessa realtà con il destino, cioè il libro, consegnando la casina giusto in tempo alla Letteratura e affidandola, per sempre, alla custodia dei lettori. Perché questo fanno gli scrittori come Camilleri, non curandosi di giudizi (e quanto questo gigante della nostra letteratura sia “misconosciuto” è ben strano paradosso) e recensioni, e vendite: guardano oltre l’effimero, trafficano con l’immortalità.

Ci accoglie nella sua casa di città, Camilleri, sigarette posacenere e birra a portata di mano, e parte proprio dalle recensioni. «Da tempo non leggo piu le eventuali recensioni dei giornali. Negli ultimi tempi ho solo letto quello che ha scritto di me il mondo accademico, trovandolo piu produttivo nei miei riguardi. Che intendo dire? Leggendo un passaggio magari mi dico: “toh, guarda, non ci avevo riflettuto”. Il saggio accademico ti rivela che tu scrivi seguendo il tuo schema, e non ti rendi conto che tiri in ballo delle implicazioni. Io rifletto molto prima di scrivere, eppure nei saggi scientifici su di me, spesso trovo letture che mi indicano un filone, qualcosa di cui tenere conto. Le critiche migliori sono quelle che ti sono d’aiuto». Pausa, tipica della oratoria camilleriana, poi stoccata. «Purtroppo arrivano tardi. Ormai ho ridotto molto la scrittura». Il che è vero, con l’età e la cecità che complicano le cose, ma non è vero che siano tardive. Camilleri è studiato a livello accademico da molti anni, e produttivamente. Lo so per certo: chi scrive, esattamente 20 anni fa, fu il primo, all’Università di Cagliari, a laurearsi con una tesi su di lui (Camilleri aveva scritto solo 4 Montalbano e 4 romanzi storici), relatore il professor Giuseppe Marci che, in questi anni, ha quindi strutturato gli studi sullo scrittore, inventando e portando i suoi «Seminari Camilleriani» in giro per il mondo (ultimi a Beirut e Malaga) e costruendo un «CamillerINDEX» che registra, parola per parola, occorrenze e variazione dei significati di ogni lemma: impresa titanica e di fedeltà eccezionale.

«Per il 90% dei miei lettori, sono l’inventore di Montalbano», dice Camilleri. «Ma la cosa più giusta nei miei riguardi l’ha scritta Carlo Bo. In realtà il successo di Camilleri» parafrasa a memoria «è dovuto al fatto che riempie un vuoto. Da noi in Italia manca quella letteratura medio alta, che troviamo nei paesi anglosassoni, sto pensando a Graham Greene». La citazione esatta è ancora più nitida: «Camilleri», scriveva Bo, «occupa un posto che non esisteva nella letteratura italiana, offrendo libri di qualità e di buona presa sul pubblico, come hanno fatto Simenon in Francia e Graham Greene in Inghilterra». Ed ecco la “grandezza misconosciuta” di cui si diceva: Camilleri ha scritto romanzi (per tutti Il birraio di Preston, La concessione del telefono, Il re di Girgenti) che avrebbero assicurato a qualunque scrittore fama e lodi per qualità letteraria presso la critica che, invece, fatica a perdonare il successo di pubblico, e che, in queste dimensioni, diventa un peso. Camilleri autore, insomma, è offuscato dal troppo successo commerciale. «Che poi Bo trascurava il fatto della lingua, che invece, con il passare degli anni, è diventato sempre piu importante» riprende Camilleri. Sulla questione pregiudizio e sottovalutazione, alza le spalle. Gli chiedo se non pensa di poter essere messo accanto ai Gadda, agli Sciascia e ad altri del canone del nostro Novecento. Beve un sorso di birra, aspira la sigaretta. Pausa preliminare, stavolta. «È imbarazzante rispondere... Questa è la mia aspirazione, ma non so se ci riesco. Fin dal primo momento, non ho mai pensato di scrivere un giallo per il giallo, ma per disciplina di scrittura. Se quelle regole si applicavano al romanzo d’amore, avrei scritto un romanzo d’amore. Montalbano era una “funzione” nel primo romanzo. Ho scritto il secondo esclusivamente per completare il personaggio. E finirla lì». Pausa Camilleri. «Mi è andata male». Ridiamo.

Riprende: «Montalbano è sopravvissuto alla mia volontà di estinguerlo in virtù del suo successo, e spesso anzi mi ha intralciato su altri progetti. Spuntava e mi tentava: “lascia perdere e dedicati a me...”. Mi ha fatto perder tempo talora, sì, ma non è mai riuscito a sopravvalere».

Non a caso, tra un Montalbano e l’altro, ecco un capolavoro come Il Re di Girgenti, il romanzo che lui ha sempre considerato il suo punto più alto. «È il romanzo che mi nasce dalla commistione autentica della lettura dei Promessi Sposi con i racconti contadini che ascoltavo da bambino. In questo senso, e per preparare questo mix, ci ho messo molto tempo. Se un Montalbano chiedeva 3-4 mesi per essere scritto, e altrettanti per riscriverlo, perché non c’è un solo romanzo che non abbia riscritto, il Re mi ha portato via 5 anni di lavoro. E mi piaceva la sfida di adoperare il vigatese della fine del Seicento. Ha comportato uno studio serio di autori, a cominciare dall’abate Meli, per avere nelle orecchie il suono di quel siciliano. Ma mi dichiaro soddisfatto. Oltre non sarei potuto andare. Hic sunt leones». Sull’impiego del siciliano, Sciascia, a suo tempo, lo sconsigliò. «E ancora oggi» chiosa Camilleri, dopo milioni di copie vendute e 10 lauree ad honorem, «non mi avrebbe dato ragione, non avrebbe cambiato idea». Non bastasse, la sua lingua, la sua scrittura, evolve continuamente, tanto che, rivela, «l’ultimo romanzo di Montalbano, che esiste da anni, l’ho dovuto riscrivere di sana pianta. Siamo già d’accordo con Sellerio che, quando sarà, verrà pubblicato con le due stesure affiancate».

Tra la sfide che si è posto, e ha superato, quella di impersonare Tiresia a Siracusa è stata forse la più ardua. «Su quelle pietre c’è stato Eschilo. Mi sono chiesto se a 92 anni avrei avuto la forza, la memoria, la capacità. Ne valeva la pena, ma mi ha interiormente devastato. Per la prima volta in vita mia, dopo lo spettacolo, sono stato 30 giorni senza scrivere un rigo. Dovevo rinsanguarmi. Un’operazione che non ripeterò».

Il parallelo con Sciascia ci riporta al suo impegno di scrittore civile e di intellettuale così spesso esercitato. Il rammarico affiora quando gli chiedo come è cambiato il nostro paese. «Forse sono venute a mancare le persone decenti e non abbiamo saputo trovare sostituti delle cose nelle quali credevamo. Io ero comunista perché ci credevo. Questo fallimento della mia generazione e della più giovane lascia una cattiva eredità ai pronipoti, che dovranno sbrogliarsela da soli. È un rimorso che mi porto dentro». Ma precisa: «I miei interventi però non sono da intellettuale, sono dettati dal buon senso, cosa che in Italia si va perdendo. Ho provato orrore per la vicenda dei naufraghi lasciati altri 20 giorni in una nave, ma non per chi ha ordinato questo, ma per chi lo applaude e lo segue. La perdita della solidarietà dell’uomo con l’uomo è gravissima, più grave di un fatto politico. Sta cambiando il nostro dna e non so spiegarmene le ragioni». Gli dico che il libro dedicato alla pronipote, Ora dimmi di te (Bompiani) è anche un trattato di educazione civica e un modo, parlando del passato, per farci capire il presente. «Ma io parlo solo dei fatti in cui sono stato coinvolto in prima persona» obietta. «Non parlo della Resistenza, per esempio. Parlo del Fascismo, come l’ho vissuto io. Ma non ho dichiarato nulla nel libro. Uno può trarre il giudizio che vuole. Ma mi pare di non essere stato un cattivo esempio, anche se una volta tirai le uova al crocefisso». Credo glielo si possa perdonare e che il suo percorso esistenziale e intelletuale resti unico. Fossi presidente della Repubblica, non vedrei in giro candidato migliore da nominare Senatore a vita. Ma questo, a lui, non lo dico. Capace che mi mandi al diavolo. Preferisco pensarlo, scriverlo e sperare che accada. Che abbia onorato il suo paese e, di più, la Letteratura non ci sono dubbi. Milioni di lettori sono pronti a giurarlo. Con convinzione, entusiasmo e, sì, gratitudine.

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