Intellettuali e artisti a confronto

Cultura Domenica

Primo nemico è il piagnisteo

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2010 alle ore 19:30.

Ha ragione Christian Raimo: oggi in Italia la cultura «è considerata accessoria». No, ha torto: gli spazi per far crescere nuove idee ci sono, basta saperli trovare e usare. Le parole dello scrittore romano – che con un intervento e poi un'intervista su questo giornale ha avviato la riflessione sugli spazi pubblici per la cultura nel nostro paese – dividono gli intellettuali delle "vecchie" generazioni.

Raimo sembra cogliere nel segno quando denuncia le carenze dei luoghi istituzionali deputati alla cultura e alla formazione. Anche il critico letterario Alfonso Berardinelli vede «nell'incuria e nelle inefficienze delle strutture stabili», cioè scuola, biblioteche e musei, la debolezza della cultura in Italia. C'è un «rapporto sbilanciato tra l'effimero e lo strutturale: non si trovano i soldi per le biblioteche, ma si spendono migliaia di euro per portare un grande nome al festival o all'evento di turno». Gli spazi effimeri abbondano a scapito delle strutture permanenti: «Viviamo alla giornata, perché l'evento dura qualche giorno, e non lascia nulla».
D'accordo con Raimo si dice la scrittrice Lidia Ravera: «Oggi, in Italia, la cultura è guardata con fastidio e afflizione». Ma non è una questione generazionale: «Gli spazi di discussione o conversazione mancano anche a me. Mancano e basta. Negli anni Settanta la cultura era ancora considerata strumento di mobilità sociale. Godeva del rispetto di cui gode un attrezzo utile per migliorare la propria condizione». Come uscirne, per non limitarsi a una lamentatio transgenerazionale? Raimo ricordava l'importanza di recuperare un «senso della collettività», e anche Ravera sostiene che «dobbiamo ricostruire un tessuto sociale e culturale a partire dal riconoscimento dell'altro». Diversa l'opinione del giornalista Pierluigi Battista: «Chi lavora nel campo culturale non può pensare che esistano condizioni esterne in grado di favorire la creatività artistica o letteraria. È una sciocchezza». Battista è tranchant: basta con piagnistei e pessimismo, mettiamoci a lavorare e studiare. «Mentre scriveva L'etica protestante e lo spirito del capitalismo – dice – Max Weber non si poneva il problema delle recensioni, dell'editore, della promozione del libro. Scriveva e basta». Allo stesso modo, non condivide l'accusa di Raimo alle pagine culturali dei giornali, più attente a logiche di mercato e consumo che di formazione e cultura. «È una visione vecchia e inutile quella che contrappone cultura alta e cultura popolare: il pubblico dei lettori è nato con i feuilleton, la cultura si è diffusa grazie a chi ha saputo anche andare incontro ai gusti delle persone». Che in Italia gli spazi siano pochi non è una novità: «In campo culturale non siamo all'avanguardia da almeno 50 anni, tranne nel cinema – aggiunge Battista –. La vera differenza rispetto a ieri, ma vale anche per altri paesi, è la sempre minor influenza degli intellettuali. E infatti i pochi che emergono diventano delle star».

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Gli spazi per fare cultura ci sono, afferma il direttore del Piccolo Teatro di Milano Sergio Escobar, e vengono soprattutto da internet. Se Raimo esprimeva dubbi sulla orizzontalità della Rete, Escobar è invece convinto che metta a disposizione «stimoli formidabili e nuovi spazi per le idee, non più riconducibili a quelli tradizionali». Spazi virtuali e mentali, creati anche dall'incontro tra lingue e culture diverse. A questi stimoli devono guardare i giovani: «Sbaglia chi cerca di farsi largo nei luoghi consueti della cultura – prosegue Escobar – perché sono finiti anche per le vecchie generazioni. E a loro volta le vecchie generazioni devono lavorare con i giovani per far interagire i nuovi spazi con la tradizione».
Meno ottimista sembra Miriam Mafai, scrittrice e giornalista, che in un primo momento, leggendo le parole di Raimo, si schermisce davanti alla richiesta di intervenire nella discussione («Sono un'anziana signora, non ho un blog, non credo ai dibattiti sul web»), ma poi ammette di condividere il punto di vista dello scrittore: «Il suo malessere mi conforta, nel senso che non è solo mio. E mi fa provare nostalgia per i dibattiti alla Casa della cultura, gli incontri in sezione e persino gli scambi di idee, la sera da Rosati, con gli amici». Quanto di più lontano dalla situazione attuale. «Mi chiedo se non siamo stati noi a volerla – aggiunge –. Ai miei tempi la società era organizzata attorno a quei grandi pilastri che erano i partiti. Li abbiamo voluti distruggere, e questo è il risultato».
La «sincerità e l'ingenuo sconcerto di Raimo non colgono nel segno», invece, secondo Luigi Amicone, direttore del settimanale Tempi: «Non va oltre quella che Robert Hughes definì la "cultura del piagnisteo", per cui questo mondo cattivo non riconosce il nostro genio creativo». Lo spazio c'è, sostiene Amicone, per quei talenti disposti a sottomettersi agli schemi culturali oggi dominanti, quelli imposti dalla sinistra, improntati al "politically correct" di Repubblica o al giustizialismo del Fatto. «Se Raimo vuole restarne fuori – chiosa Amicone – deve rimboccarsi le maniche e accettare di essere una nicchia che combatte per una propria idea di cultura».

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