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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2010 alle ore 19:04.
Qualche giorno fa ho avuto una delle più grandi soddisfazioni – se non la più grande – della mia pencolante carriera di professore a contratto di Scrittura tecnico-professionale. Un riassunto ben fatto? Un comunicato stampa impeccabile? No, niente di tutto ciò. Qualcosa invece che riguardava quel sacrosanto lifelong learning, di deweyana memoria, che cerco sempre di far risuonare a lezione e che vorrei accompagnasse i ragazzi anche fuori dalle aule. Ho visto i miei studenti ventenni manifestare contro la riforma Gelmini in modo organizzato, sentito, civile e costruttivo. "Finalmente! Che bella generazione" mi è venuto da pensare d'istinto. E subito è scattato il confronto: "Rispetto a noi trenta-quarantenni, così dispersi e atomizzati, così cinici e individualisti". Già. L'idea di una generazione. Che è poi un'idea di operatività. Finora io quell'idea l'avevo vissuta per interposta persona in quelli che un tempo si chiamavano i maestri (espressione piuttosto latitante oggi, questi sono tempi di self made men...), che ho avuto la fortuna di frequentare: Maria Corti, Enzo Siciliano, Giovanni Raboni, Cesare Garboli. Quel senso di appartenenza che ti fa vivere dentro la storia, dandoti senso della prospettiva, coraggio, voglia di cambiare e migliorare, di sognare (perché no?).
Molto spesso nei miei coetanei avvertivo una frammentazione, lancinante e quasi ineluttabile. Siamo bravi, mi dicevo, alcuni bravissimi, ma ognuno sembra cometa e stella filante nel proprio adamantino cielo personale. Ma l'amor che move il sole e l'altre stelle, come direbbe Dante, dov'era?
Però forse mi sbagliavo. Il dibattito aperto da questo giornale ha visto le migliori menti della mia generazione stavolta non distrutte da un senso di impotenza ma impegnate in un confronto serrato e costruttivo, senza sconti o false ipocrisie. Si sta delineando un'idea forte, operativa appunto, di generazione?
Ma allora, nonostante tutto e tutti, la Respublica literatorum su cui ho passato le mie giornate di liceale e studente universitario, quel luogo intellettuale (ideale ma concretissimo) dove si riconosce con gioia il talento altrui, dove la discussione è reale e fattiva, allora quel luogo (vedi alla voce utopia) è ancora realizzabile? Può essere una reale alternativa operativa?
Dunque, da figlio e nipote di contadini friulani, abituato perciò a ragionare in concreto, vengo al "sodo", e mi chiedo e vi chiedo: operativamente cosa si può fare?