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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2010 alle ore 16:14.
Non c'è una civiltà letteraria che può ancora dirsi tale? Vero. L'intellettuale ha perduto il senso del suo ruolo in un mondo torbido di sé, in quanto a segni irradiati che non si riesce a decodificare? Sacrosanto. La letteratura ha smarrito il suo codice identitario e la sua funzione? Assunto lacerante. Question belle toste. Il contesto è il Belpaese di provincia: s'è riscritto ex-abrupto negli ultimi decenni, relativizzandosi. Dall'economia alla spiritualità, dall'energia alla storia, dal territorio, l'architettura, l'arte, ecc. Spargendo ovunque, fin negli interstizi più intimi, virus che hanno destrutturato anche il rapporto intellettuale-potere. Dalla sera alla mattina sono state necessarie altre chiavi di lettura. Ma quali?
Non è stata una scelta, ma una necessità storica imposta dall'adeguamento del sistema complessivo alla globalizzazione, sia per un fatto di visibilità e competitività che di consumo (nel senso di fruizione) più larga possibile. Nell'ultimo quarto di secolo ci sono stati snodi definiti epocali. Tracciando un'altra semantica, un "prima" e un "dopo" anche dentro di noi, metà europei, metà mediterranei. Indubbiamente lo sono. Per il fatto di aver dato vita a un'altra percezione del reale, lesionando quella classica, relegandola al Novecento, al crepuscolo dei suoi dèi, ai sogni e le utopie inesorabilmente bruciate le cui ceneri il favonio ha centrifugato ovunque.
L'89 è una data cruciale (anche perché arriva dopo glasnost e perestrojka gorbacioviane). Sotto le macerie del Muro di Berlino restano finalmente imprigionate le ideologie del "secolo breve" pregno di drammi, personali e collettivi, ma anche l'idea d'un mondo razionale, positivista, illuminista, freudiano. Fattosi d'improvviso oscuro e complesso, anche nella composizione sociale. L'idea di "fine della Storia" (limitata comunque all'Occidente) forse è espressa in maniera plastica dalle martellate liberatorie dei ragazzi di Berlino. "Ismi" rottamati, senza più presa sulle coscienze, le vite, le sensibilità, il privato (che così smette d'essere politico) alienato e a volte patologico. Il senso di libertà che ne consegue confonde, fa girar la testa come dopo un bicchiere di malvasia nera. Ma nella Storia, come in Natura, il vuoto non esiste. Schizzata di vernice un'icona e sbattuta giù dal piedistallo, l'uomo non può vivere senza divinità, un firmamento di dèi, miti, epopee, riti, fosser'anche posticci. Sarebbe afferrato e dilaniato dai cerberi dell'inedia definitiva. Qualche altra icona occorre dare ai popoli confusi, smarriti, scagliati in un uguale iperuranico. La Massoneria planetaria (gli Incamminati) allora decide che al centro va messa la merce, l'oggetto, il consumo (spesso indotto e coatto, straccione). Il culto dell'iconografia così propone il corpo, glorificato e autocostruito, il vestito griffato, il logo, il trend, l'ansia dell'eterna giovinezza, la rimozione dell'idea di vecchiaia e di morte. Tutto si transustanzia in brand. La reazione istintiva, antropologica, è di soggettivizzarsi, darsi un'identità out, borderline, non assimilabile ai modelli imposti da moda e pubblicità. Ma, come il ragno che s'imprigiona nella sua stessa ragnatela, più ci si agita in quella direzione, più ci si omologa, si diventa "massa". Fatto sconvolgente: la bellezza non comunica più, traccia anzi distanze siderali. Una sorta di patto faustiano supportato dalla scienza, la tecnologia; il web è una nuova "fede", in aggiunta alla tv-spazzatura, vero oppio dei popoli, ipnosi per poveri di spirito, eroina tagliata male che provoca l'ipertrofia dell'io, rubbish che si posa sull'anima imputridendola, causando la necrosi. La tv ha anestetizzato le coscienze depositandovi il guano di una cultura bignamina.