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Cultura Domenica

Spazi interiori e spazi esteriori

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2010 alle ore 16:10.

Guardiamoci in faccia. Quel nodo a tre corde composto da ricerca della verità, amore per la cultura ed etica dell'argomentazione, è stato consumato con cura nella nostra storia recente. La terribile crisi della scuola e della ricerca, la diffusione del pressapochismo e della volgarità come strumento di discussione, quella che Christian Raimo chiama bene "l'ufficistampizzazione delle pagine culturali", l'elevazione del menefreghismo a valore, eccetera.

In una situazione di questo tipo, è inevitabile che l'idea di fare cultura e creare uno spazio pubblico si divarichi in due scelte egualmente sterili: la rassegnazione o la superficialità.
La prima si arrende e sceglie l'ignoranza; vede nella cultura un alieno piovuto dall'alto — l'esercizio di stile fighetto sulla terza pagina di un giornale, o il dibattito genere "no, il dibattito no!".
La seconda limita ogni azione al guscio esteriore. Il culto del dilettantismo e del "posso farlo anch'io in cinque minuti". Gli slacktivist che cliccano una petizione su Facebook e morta lì. Il rifiuto della profondità nel nome di una superficialità "barbara".
C'è una via d'uscita? Come (quasi) sempre, c'è. Ma richiede enormi sforzi congiunti e personali.
Uno spazio valido per raccogliere le voci migliori del panorama italiano dovrebbe essere molto diverso dagli spazi istituzionali ora a nostra disposizione (quelli editoriali e informativi in primis): dovrebbe essere libero, senza padroni, trasparente, commentabile, con una rigida etica della discussione, capace di dare impulso non al dilettantismo ma alla professionalità più ampia, e — nel caso intenda fare profitto — pagare i contributi intellettuali che riceve.
Al momento non vedo spazi simili dove riconoscermi appieno. Eppure credo fermamente nella possibilità di crearli. Il disagio e la tristezza connaturati a questi tempi non possono terminare in se stessi, e nemmeno divenire una consolazione del tipo "ci ho provato, ma non esiste un luogo".
Prima ancora di invitare a cercarlo, però, mi permetto un suggerimento che potrebbe suonare come un'inversione di rotta, dal pubblico al privato: coltivare questo spazio innanzitutto dentro di sé, in forma di dignità e trasparenza personale.
Ecco, credo che il punto essenziale sia proprio questo — la trasparenza. Anni fa, quando non immaginavo nemmeno di poter essere ospitato sulle pagine del "Sole", il mio pensiero ricorrente era: come si fa ad accedere al luogo della discussione? È una questione che vorrei fosse posta più spesso, soprattutto ora. Quali sono le dinamiche del mondo culturale italiano? Come si arriva a scrivere su un giornale? Qual è l'agenda setting di una redazione? Perché viene invitato x a tale evento e non invece y?

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Se fai queste domande, la risposta generica è un'alzata di spalle. E in ogni caso non sta bene: la polemica è accetata finché si limita a puntare il dito contro la piaga senza affondarlo.
Che ci piaccia o meno, siamo tutti schiavi di una certa opacità che difende chi è "dentro" (e che pensa di averne pieno diritto) e chi è "fuori" (che vorrebbe partecipare, ma come?). Questo al di là di qualunque nozione di merito. E per combattere questa opacità ci vuole innanzitutto grande onestà intellettuale — ci vuole un'apertura dei retrobottega, e la volontà di creare una bottega diversa, realmente libera.
Faccio questo rimbrotto un po' inattuale perché la sfiducia verso il prossimo è cosa normale, in Italia. Secondo i dati riportati da un recente studio di Cannari e d'Alessio (Le famiglie italiane, Il Mulino), meno del 3% degli italiani si fida completamente dei propri connazionali. È con questo che abbiamo a che fare, che ci piaccia o meno: basta smettere di leggere Bauman e scendere in strada per rendersene conto. In queste condizioni — dove il concetto stesso di "spazio pubblico" è abbastanza anomalo, così come quello di "etica pubblica" — i rischi sono molti.
Ma io non voglio essere pessimista: anzi. E dunque, come porre le basi di una piccola rivoluzione culturale? Qualche idea: buttando a mare l'aura novecentesca della figura autoriale o dell'"intellettuale". Coltivando il valore dell'impegno gratuito, ma con l'equa pretesa di un risultato. Rispondendo alle email che arrivano al proprio indirizzo. Ammettendo serenamente i propri errori ed evitando qualunque ricorso al potere o alla retorica. Facendo fuori l'idea che chi si occupa di cultura sia uno stronzo — un professore che non si occupa degli allievi, un recensore che non legge libri, un consulente che prende soldi per segnalare autori e non lo fa. Combattendo la logica dell'esclusione. Lasciando che la propria biografia intellettuale sia trasparente.
Io credo che se accettiamo questi presupposti allora ce la si può fare. Penso ai piccoli festival organizzati con dedizione, dove l'importante è solo mettere in gioco le proprie parole e ascoltare davvero quelle altrui. Penso alle riviste indipendenti. Penso a chi organizza incontri e cineforum. Penso all'etica hacker.
Con questi esempi non voglio tessere l'elogio del localismo, ma sono scettico di natura verso ciò che piove dall'alto. In questi giorni a Milano si tiene un "osservatorio sulle idee" a cura del Sum, con una serie di nomi grossi (da Eco a Galli della Loggia). Ecco — per me questo è il contrario esatto di uno spazio di cultura. Perché rimane appunto "in alto", confinato nel suo riquadro istituzionale, museale. Questo, per me, è il modello da combattere.

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