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La forza debole della scienza

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2010 alle ore 06:42.

«La Repubblica non ha bisogno di scienziati». Si racconta che fu questa – nella Parigi del Terrore – la replica di un giudice del tribunale rivoluzionario alla domanda dell'imputato Antoine Lavoisier: il chimico più illustre del suo tempo, che aveva pregato i magistrati di rinviare la sua condanna a morte come ex ministro di Luigi XVI per dargli modo di perfezionare, dal carcere, le misure del nuovo sistema metrico decimale. Già, la Repubblica di Robespierre non aveva bisogno di quel genio, il padre della chimica moderna, che ai fantasmi del flogisto aveva sostituito la legge sulla conservazione della massa e che aveva battezzato l'ossigeno, l'idrogeno, l'azoto... Il processo davanti al tribunale rivoluzionario durò meno di ventiquattr'ore. Il pomeriggio dell'8 maggio 1794 Lavoisier salì i gradini del patibolo, offrendo la sua bella testa di cinquantenne alla lama della ghigliottina.


Oltre due secoli più tardi, la Repubblica italiana ha bisogno di scienziati? Si direbbe proprio di no. Nel 2008, la quota del Pil investita in ricerca ammontava per l'Italia all'1,09%, contro il 4,53 di Israele e il 3,73 della Svezia, ma ben lontano anche dal 2,11 della Francia o dal 1,78 della Gran Bretagna. Più impressionante ancora il dato relativo alla percentuale di ricercatori ogni mille occupati: 3,38 per l'Italia, contro l'11,05 del Giappone e l'8,15 della Francia, ma anche contro il 4,28 della Grecia (nell'area Ocde, fa peggio di noi soltanto la Turchia). Quanto al corpo docente del l'università italiana, è il più anziano fra tutti quelli dei paesi Ocse. Fino al caso estremo dei fisici: con un 2% di docenti sotto i 40 anni, mentre il 48% ha più di 60 anni e il 30% ne ha più di 65.

Diversamente dalla Repubblica di Robespierre, la Repubblica italiana non condanna alla ghigliottina i suoi scienziati inutili: dopo averli formati, si accontenta di metterli alla porta. È la "fuga dei cervelli" di cui tanto si parla, salvo fare pochissimo per rimediarvi. E una volta di più la fisica rappresenta un caso-limite: in questo campo, l'Italia si dimostra altrettanto capace di produrre "eccellenze" che di farle scappare. Nel 2007, il Cnrs (l'equivalente francese del nostro Cnr) ha reclutato sette nuovi ricercatori di fisica teorica: quattro erano italiani. Forse, un giorno, alcuni di loro saranno scienziati-top; ma lo saranno lontano dal paese che ha speso fior di quattrini per la loro formazione e ha rinunciato a raccoglierne i frutti.

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Si potrebbe sostenere, volendo, che il problema è tutto politico. Si potrebbe ragionare della lungimiranza di un governo il quale, non discriminando i tagli alla spesa, mostra oggi di ignorare i nessi – matematicamente dimostrati – fra investimento nella ricerca scientifica, grado di innovazione tecnologica e tasso di sviluppo economico. O si potrebbe, più banalmente, confrontare il curriculum vitae del ministro italiano dell'università e della ricerca con il curriculum dei suoi omologhi francese, inglese o giapponese. Ma buttarla in politica equivarrebbe a riconoscere soltanto una parte del problema: che è anche problema di storia, nella misura in cui affonda le sue radici in scelte vicine o remote della nostra classe dirigente.

Lo spiegano bene due storici della scienza, Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi, in un libro dal titolo L'Italia degli scienziati. 150 anni di storia nazionale (Bruno Mondadori, pagg. 336, € 22,00): per capire l'oggi, bisogna guardare allo ieri o addirittura all'altroieri. La fuga dei cervelli? Ammettiamolo, è incominciata ben prima che ai vertici politici della ricerca scientifica in Italia approdasse una laureata in giurisprudenza di Brescia divenuta avvocato a Reggio Calabria. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, tutti i premi Nobel italiani – sette su sette, escludendo quelli per la letteratura – sono stati assegnati a figure di medici (Luria, Dulbecco, Levi Montalcini, Capecchi), fisici (Rubbia, Giacconi), economisti (Modigliani) formatisi nella penisola, ma professionalmente cresciuti all'estero. È da mezzo secolo che la Repubblica italiana non ha bisogno di scienziati.

Il libro di Guerraggio e Nastasi può essere letto come una parabola sul nostro declino, raccontata attraverso il ruolo decrescente che la classe politica ha attribuito alla scienza. Vanno riconosciute tre stagioni, ciascuna delle quali lunga all'incirca cinquant'anni. Una prima, dall'Unità alla Belle Époque, in cui gli scienziati che avevano animato le lotte del Risorgimento diventarono essi stessi classe dirigente, occupando posizioni di immediata responsabilità politica e promuovendo un rapporto il più costruttivo possibile fra scienza e società. Una seconda stagione, dalla Grande guerra al "boom" economico, in cui una progressiva professionalizzazione della politica (in forme autoritarie sotto il fascismo, democratiche sotto la Repubblica) ridimensionò il ruolo sociale degli uomini di scienza, obbligandoli a un sempre più defatigante esercizio di compromesso con gli uomini insediati nella "stanza dei bottoni". Una terza stagione, dagli anni Sessanta a oggi, in cui l'Italia politica ha scelto di rottamare le sue eccellenze scientifiche, votandosi alla decadenza.

Nello spazio di un singolo biennio, il 1963-64, rovesci politici e/o giudiziari investirono le tre realtà più innovative del paesaggio italiano: l'Istituto superiore di sanità di Domenico Marotta, il Comitato nazionale per l'energia nucleare di Felice Ippolito, il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Adriano Buzzati Traverso. Per molti aspetti, fu quello – proprio all'apice del boom – l'inizio della nostra fine. Scienziati forse troppo accentratori o eccessivamente disinvolti nella gestione delle cose amministrative, ma di invidiabile capacità imprenditoriale e di conclamata caratura internazionale, vennero sacrificati sull'altare di una "correttezza politica" che si preparava a diventare lottizzazione partitocratica. Intanto, alla Olivetti di Ivrea, geniali sperimentazioni sui personal computer venivano troppo in fretta messe da parte, lasciando agli americani il business del futuro.

Dovremo dunque concludere che il volume di Guerraggio e Nastasi, la loro leggibilissima passeggiata nella storia della scienza italiana dall'Unità a oggi, non lascia in bocca che un gusto di amaro? Sì e no. A ben vedere, si trovano in un libro come questo anche spunti in positivo, esempi dai quali ripartire. Uno per tutti, la straordinaria esperienza del siciliano Orso Mario Corbino, team manager – fra i tardi anni Venti e i primi anni Trenta – di Enrico Fermi e degli altri «ragazzi di via Panisperna», i fisici italiani che attraverso le loro scoperte sulla struttura del nucleo incamminarono il mondo verso l'èra atomica. La vicenda accademica e manageriale di Corbino costituisce la prova che una politica fondata sul reclutamento dei giovani migliori e sulla collaborazione internazionale nelle ricerche può trasformare anche un paese relativamente povero e periferico (com'era l'Italia fascista, e com'è l'Italia di oggi) in una piccola avanguardia della scienza mondiale.

Secondo esempio, più lontano nel tempo, ma altrettanto istruttivo: l'irresistibile ascesa di un ingegnere minerario della provincia piemontese, Quintino Sella. Quante cose avrebbe oggi da insegnarci, quest'uomo il cui nome evoca in noi sbiadite memorie di studi liceali! Eccolo, alla vigilia del 1860, collaborare al progetto del tunnel ferroviario del Frejus, con l'incarico di risolvere il problema dell'aerazione della galleria. L'ingegnere di Biella aveva allora meno di trent'anni, e un secolo e mezzo mancava ancora al l'epoca nostra: quella in cui politici demagoghi, valligiani ignoranti e contestatori no global tengono in scacco un intero paese con lo slogan "no Tav". Ed eccolo Quintino Sella, nel 1862, ministro delle Finanze del governo Rattazzi: un ministro trentacinquenne che si rimbocca le maniche, studia nottetempo la scienza finanziaria, introduce in Italia il sistema della dichiarazione dei redditi, e che nel frattempo – ricordandosi di essere ingegnere – cerca di regolare la tassa sul macinato attraverso uno speciale contatore meccanico che misuri la quantità esatta di farina uscita da ogni singolo mulino...

È lo stesso Quintino Sella che dopo la breccia di Porta Pia, nel 1870, cerca di promuovere la nascita di un polo universitario nella Roma ormai capitale, per farne «un contrapposto scientifico al Papato»: quel contrapposto di cui, nell'Italia d'oggidì, gli ultimi nostalgici del "laicismo" continuano ad avvertire la mancanza.
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