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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2011 alle ore 11:30.

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Toni Servillo e Remo Girone in un foto di scena del film "Il gioiellino'' di Andrea Molaioli. (Ansa)Toni Servillo e Remo Girone in un foto di scena del film "Il gioiellino'' di Andrea Molaioli. (Ansa)

Il suo Botta- nient'altro che quel Fausto Tonna, anche nelle citazioni letterarie delle sue dichiarazioni alla (anzi, piuttosto contro la) stampa- è un finto calmo che esplode, un finto freddo che sa amare, male e goffamente, l'unico personaggio di fantasia del film, una Sarah Felberbaum che mostra un (gran) talento che non le conoscevamo. Il suo Tonna è sgraziato in tutto quello che fa, è un capo oscuro, persino il suo modo di parlare è così perfettamente irritante. Servillo studia il suo personaggio e lo rende simbolico, tragico nella sua normalità e nell'inseguire un sogno, forse l'unico della sua vita. Un antieroe a cui non viene risparmiato nulla. Molaioli cuce un film con la perizia di un sarto attento e di uno stilista di gran classe, non guarda in faccia a nessuno. Persino i giornalisti ricevono, giustamente, un attacco che, forse, avrà irritato e condizionato molti nel giudizio: dopo una conferenza stampa ostica, Girone, già tycoon in crisi, dice a Servillo "abbiamo fatto male a tagliare i pacchi dono alla stampa". Tranciante battuta su una pessima abitudine instaurata nei rapporti tra quarto potere e potentati economici.

Il gioiellino è un ritratto impietoso e articolato di un'Italia terremotata, di un'economia fatta di imprenditori corruttori e corrotti, di uno Stato che li aiuta e di un'economia che brilla per fac totum di grande esperienza e furbizia e per l'assenza di vere regole di mercato. Il gioiellino ci dice com'è cambiata l'Italia, anzi come non lo ha fatto: sono cambiati solo gli strumenti con cui conquistarla e devastarla. Laddove prima la politica era un autobus (Enrico Mattei dixit), ora è un portavalori che regala, senza meritocrazia, sovvenzioni, provvedimenti ad personam, finanza creativa (o cretina?) e, come sempre, do ut des che servono solo a seppellire risparmiatori e affini. E Molaioli, Servillo, Girone e tutti i comprimari- il segreto del film è capire come vive la quiete prima della tempesta tutto il top management di Leda- riescono a ballare questo valzer triste di un paese alla deriva con eleganza e crudezza.

Altrettanto bello, sia pur profondamente diverso, è La vita facile. Come ne I figli delle stelle, ma con una capacità maggiore di comporre una struttura (im)portante, narrativa e visiva, senza falle e ancora più cattiva, Lucio Pellegrini continua a raccontare l'Italia partendo da storie tragicomiche solo apparentemente marginali. Tanto che se un difetto si può trovare il film, è quasi volerne ancora un po', cercare quel paio di pennellate forse tagliate per esigenza di durata e che forse avrebbero dato ancora più forza al film. Il regista, qui, si richiama alla miglior commedia all'italiana. Lo fa grazie a Pierfrancesco Favino, un Sordi africano che non t'aspetti- ma che abbia un talento ancora inespresso per la commedia è evidente- e a uno Stefano Accorsi che gioca sui suoi registri preferiti in una delle interpretazioni più felici della sua carriera. Lo fa con la dark lady viziata Vittoria Puccini e con comprimari bravissimi come Camilla Filippi- la sua Elsa è la bussola del film e un personaggio tenerissimo e vero nella sua forza di carattere- e Angelo Orlando.

Lo fa anche raccontando due medici senza frontiere. Favino non le ha mai avute nella sua corsa al denaro, al lusso, al potere. Accorsi non le ha mai avute nella sua fuga dall'amore, dal potere del padre (un Marescotti viscido, pennellato in due scene), da se stesso. La storia di un'amicizia maschile diventa presto il confronto tra le due facce di una generazione che ha dovuto lottare, e perdere, la battaglia di chi ha subito le sconfitte dei propri padri. Di chi non aveva più ideali perché altri li avevan bruciati, e si è accontentato di un individualismo forse inevitabile. Si ride con il film di Pellegrini, ma si rimane anche spiazzati da personaggi che non impari a conoscere fino alla fine. Sono tutti sconfitti di successo che arrivano in Africa in fuga da vite sbagliate e da un passato che li schiaccia. Anche perché nessuno dei tre seppe, allora, scegliere davvero. Il Kenya de La vita facile non è la cartolina da cinema occidentale, è fatta di onlus scalcagnate e battute politicamente scorrette, di scoramento e difficoltà, di assenza di paternalismo. E gli italiani all'estero sono eccellenze in positivo e negativo. Pellegrini, sensibile e graffiante, con le sue commedie, continua a dirci più di quello che immaginiamo, e forse vorremmo, sul nostro paese. Sempre più alla ricerca della vita facile, a tutti i costi.

Non è tale, di sicuro, quella dei due fratelli di The fighter. Film classico, solido, forse non verrà ricordato tra i capolavori del genere "sportivo" di formazione, ma si fa guardare con piacere. Alla regia c'è il talentuosissimo David O. Russell (Three Kings e I love Huckabees), che si concentra su attori e linearità della storia. E vince: Christian Bale, dimagrito e sopra le righe, merita l'Oscar per la splendida performance da non protagonista (ma in realtà, come in Batman, lui è la spalla di tutti e di fatto il centro della narrazione) così come è giusto lo stesso riconoscimento a Melissa Leo, ruvida e carismatica capobranco del gineceo che si muove attorno ai fratelli pugili su cui si fonda la storia di The fighter. Storia di una provincia americana e dei suoi due eroi, rimessi in piedi dopo pesanti ko. Di un mondiale vinto e di sconfitte, di risse improbabili e di Amy Adams, contraltare di tutti, sexy nella sua normalità e, ormai, tra le migliori attrici della sua generazione (sa fare tutto, e bene). Una ricetta semplice per un risultato sicuro: provate a non tifare per Wahlberg e per la sua sgarrupatissima famiglia-tribù.

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