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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2011 alle ore 15:29.

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Che Libertà, il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, sia una leggibilissima soap opera capace di banalizzare con successo le grandi intuizioni letterarie degli ultimi due secoli non è colpa del suo autore, il talento uno se lo può dare fino alle colonne d'Ercole dei propri ferri del mestiere, e la furbizia è da prescrizione medica per un Salieri alle prese con i fantasmi di due Mozart, specie se uno è un fratello maggiore inghiottito dal proprio stesso genio (David Foster Wallace) e l'altro un mai riconosciuto padre putativo con le sembianze di Philip Roth.

Se la soap in veste di pastorale viene però annunciata e quindi accolta come un capolavoro da quel l'eterogenea élite che va dalle grandi firme (su tutte Michiko Kakutani, critico principe del «New York Times») ai cavalieri senza nome della blogosfera, allora l'abbaglio ha delle responsabilità filologiche più gravi. Madame Bovary c'est nous ogni volta che, maneggiando un libro, scambiamo la perfetta aderenza tra aspettative ed esito della lettura per un sicuro segno di grandezza. È quanto accaduto a Libertà: un bovaristico bisogno di sublime l'ha trasformato in ciò che non potrà mai essere. Perché non limitarsi a definirlo un buon romanzo da compagnia?

Un grande libro vive sempre al di là delle nostre aspettative. Se fosse già compreso nell'idea che ce ne siamo fatta avrebbe poco da trascendere: ci appare ogni volta più bello e più brutto, più alato e più bizzarro, più pesante e più ineffabile di ciò che le nostre abitudini avrebbero desiderato, salvo poi agire in noi a tradimento, trasformando nel tempo la nostra percezione del mondo e di noi stessi. Il romanzo di Franzen, lodato per i suoi rapporti con la grande tradizione, è in realtà una continua traslazione di salme estetiche, prende a prestito da Guerra e pace e dai Buddenbrook e da Madame Bovary e da Pastorale americana, con la differenza che mentre tra le pagine di un Tolstoj o di un Roth si sente l'avventurosa bellezza e la palpitazione della scoperta (persino della riscoperta!), qui c'è solo il piacere del gioco a incastri. Il problema non è che non fa qualcosa di nuovo, ma che non fa qualcosa di vivo. Possibile dunque che la vita, ancor prima della letteratura, ci spaventi a tal punto da farci preferire il bello inerte a una salvifica perturbazione sui nostri panorami interiori?

Il triangolo amoroso che muove Libertà (tutto giocato sul principio che il nostro oggetto del desiderio diventa tale perché lo è già di un altro) è stato brevettato dai grandi scrittori ottocenteschi e ha avuto la sua definitiva teorizzazione in Menzogna romantica e verità romanzesca di René Girard. Non voglio insinuare che Franzen abbia letto Girard. Piuttosto, il suo libro sembra la messa in pagina dei tanti film e serie tv che sfruttano quello e altri grandi meccanismi letterari neutralizzandoli sull'altare del l'intrattenimento intelligente. È esattamente questo che ci rassicura facendoci scambiare per un miracolo il gioco di prestigio. L'Humbert Humbert di Nabokov ci lascia sgomenti ogni volta che, tra le tante sfumature del suo sentimento amoroso per Lolita, ritroviamo qualcosa di nostro.

L'Humbert Humbert del film di Adrian Lyne è troppo bidimensionale per appartenerci. Il dramma della borghesia allestito da Franzen mutua a propria volta così tanto dalle buone e oneste fiction tv da portarci istintivamente a credere che: sì, è vero, quella storia potrebbe appartenerci, ma in fondo è a un'altra famiglia che accade. Troppo poco complessi per essere davvero noi. Il che non solo ci consola, ma soddisfa pienamente le nostre più immediate aspettative (non essere messi in discussione) lasciando il nostro più segreto e affascinante desiderio (empatizzare con i Raskolnikov e gli Humbert Humbert e le Bovary e le Karenina che sono sin troppo umanamente dentro di noi) fuori dalla porta. Se qualcuno arriva poi a dirci che su un simile meccanismo poggiano oggi i capolavori letterari, ecco che il nostro bisogno di rimozione è pienamente legittimato. Il bisogno di celebrare Libertà temo nasca insomma dalla vana speranza di poter superare il conformismo di noi umani del XXI secolo (di questo scrive Franzen) con poco spirito del rischio, lasciando il nostro più indigeribile profilo a specchiarsi in un libro che lo biasima utilizzandone i codici, e dunque lo nasconde.

Ma forse, perlomeno da noi, il successo di Libertà è anche dovuto a un gioco di provincialismi incrociati. La più allegra esterofilia italiana, il più grigio isolazionismo a stelle e strisce. L'autore de Le correzioni è stato accolto nella realtà nostrana di queste settimane un po' come la Ekberg nella finzione di Fellini. A propria volta Franzen ha confermato fuori dalla pagina un'apertura d'ali striminzita, il che ovviamente ci ha portati a celebrare in lui ciò che non avremmo perdonato a noi stessi: interrogato sui propri consumi culturali a prescindere da ciò che accade negli States non ha saputo bene che rispondere. Anche questo è segno di una partita giocata tutta in difesa, specie se si pensa agli scrittori americani – da Hemingway in giro per il mondo, a Roth con Primo Levi, a Faulkner che apprende a distanza i segreti di Joyce – fatti grandi anche dal rapporto con le altre culture. Feticizzare gli Stati Uniti non supplisce alla mancanza di coraggio, abbandonare Europa e resto del mondo non riscatta una centralità di cui non si ricevono conferme da un decennio. Ritrovare un certo spirito d'avventura non farà male invece a nessuno, compresi Franzen e i suoi tanti estimatori. Ecco allora che i capolavori, magari, torneranno a coglierci alle spalle.

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