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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2011 alle ore 08:19.

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Dominique Manotti è con Fred Vargas l'autrice che domina la scena editoriale francese del romanzo di genere al femminile, ma mentre la Vargas indugia sulle psicologie dei personaggi, e quindi può concedersi alcune libertà, la Manotti scava impietosamente nei fatti, restando ancorata alla realtà. Malgrado questo, non ama che i suoi libri vengano definiti «di denuncia» perché, sostiene, per denunciare bisogna avere chiaro in mente che cos'è il bene e cosa il male, e lei non lo sa. Spero che non le dispiaccia se io li definisco romanzi inchiesta. Il nouveau polar francese, nato sull'onda del '68 come espressione politica del polar classico, con autori come Jean-Patrick Manchette e Didier Daenincks ci aveva certo abituati a intrecci e personaggi commisti a problemi e drammi sociali, ma trattati con impeto, se non addirittura con rabbia. Con Dominique Manotti vede per la prima volta la luce l'intreccio poliziesco che scaturisce da una lunga ricerca. L'autrice, che per vent'anni è stata docente universitaria di storia e sindacalista della Confédération Française Démocratique du Travail, quando ha cominciato a scrivere si è portata dietro questa formazione e ha cominciato, romanzo dopo romanzo, a denunciare i mali della Francia, studiandoli, prima di raccontarli, con il distacco dell'analista.
Eppure, malgrado l'affermazione di non sapere che cos'è il bene e cosa il male, sotto lo stile asciutto se non addirittura secco, in cui gli aggettivi vengono usati solo se indispensabili, lascia affiorare un forte senso della morale. Ai suoi studenti usava citare lo storico inglese Edward P. Thompson e la sua affermazione che la storia viene scritta dai vinti. Lei, di sicuro, sta dalla parte dei vinti, anche se si guarda bene dal perdonarne le colpe. E spiega: «Ho cominciato a scrivere a cinquant'anni, quando, fallite le speranze di una società migliore nate dal Maggio francese, sentendomi io stessa sconfitta, ho voluto dare voce e dignità a coloro che restano spesso privi di storia». E così ha raccontato via via la corruzione di settori dello stato collusi con l'alta finanza, il malcostume del mondo del calcio, il riciclaggio dei soldi sporchi, l'allineamento della sinistra alla logica del profitto negli anni di Mitterand, il dramma e la rabbia degli operai di una fabbrica venduta ai coreani.
Il suo settimo titolo pubblicato in Italia, Già noto alle forze di polizia, affronta un problema che affligge tutto il mondo occidentale: la violenza gratuita da parte di chi è depositario dell'ordine pubblico. La Manotti descrive puntualmente ciò che avviene nelle strade delle squallide periferie parigine, i soprusi, le violenze, le aggressioni, ma si fa carico soprattutto di dare voce a chi voce non ha, a quei giovani géndarmes di periferia affitti da una malaise che scaturisce dalla cocente delusione del fallimento delle loro speranze. Avevano pensato di arruolarsi per servire la giustizia e si trovano a soccombere al volere dei prepotenti, in nome di uno spirito di corpo che in realtà chiede solo acquiescenza.
Anche questo romanzo, come tutti gli altri della Manotti, ha una fulminante apertura a ritmo di rap, con al centro alcune giovanissime prostitute sulle quali uomini simili a bestie sfogano i loro istinti più perversi, picchiandole, violentandole, disponendone come merce.
Subito dopo si viene a sapere che gli uomini sono poliziotti agli ordini di un commissario donna incaricato di sperimentare la repressione a priori, la forza per la forza, allo scopo di tenere sotto controllo una banlieu composta sì di criminali di grande e piccolo taglio (inclusi gli agenti della Géndarmérie), ma anche e soprattutto di povera gente che fatica a mettere qualcosa in tavola.
«Nelle banlieu il diritto non si fonda sul diritto, ma sulla forza» predica la signora, e i suoi uomini sono più che disposi ad ascoltarla, arrivando a provocare incendi per sloggiare gli immigrati, a dare protezione ai trafficanti di auto rubate, a rendersi colpevoli di falsa testimonianza. Fino a quando, durante un pestaggio, non provocano la morte di un ragazzo, e una giovane recluta decide di dire basta.
La Manotti, scrittrice tutta di testa che come ex sindacalista conosce bene gli scontri spesso corpo a corpo fra manifestanti e polizia, possiede una tale forza descrittiva da portarci a sentire l'odore acido dell'eccitazione degli agenti, del loro sudore, e allo stesso tempo fa in modo di farci pervenire un invito a non prendere come oro colato ciò che la Storia ci racconta. Si vanta di scrivere noir, la Manotti, ed è giusto, perché è proprio l'estrema libertà di questo genere a consentirle di spaziare dallo strazio dell'uccisione di un ragazzo all'affettuosa morbidezza con cui ci presenta la poliziotta tirocinante che osa tenere testa alla potente responsabile del commissariato. Lei così razionale e distaccata riesce alla fine a far schierare il lettore più ancora che se esprimesse apertamente un giudizio morale.
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già noto alle forze di polizia Ddominique Manotti traduzione di Silvia Fornasiero Marco Tropea Editore, Milano pagg. 188|€ 16,00

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