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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2011 alle ore 15:32.

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Ciò che vide in questi viaggi lo spinse ad abbracciare la causa dei conta-dini sfruttati che lavoravano nelle piantagioni di indigofera del Bihar e nel distretto di Kheda colpito dalla siccità, dove i coltivatori erano vittime delle pesanti tasse e della confisca delle terre, nonché dei lavoratori degli opifici di Bombay e Ahmedabad. Ormai non si vestiva più come un elegante avvo-cato, ma come un semplice lavoratore. Naturalmente, conosceva fin da pic-colo il sistema delle caste, ma la sua ingiustizia – che condannava le caste inferiori a vivere nella povertà e nel degrado – lo colpì con particolare forza quando partecipò per la prima volta a un'assemblea dell'Indian National Congress a Calcutta e vide come i delegati bramini provenienti dal Sud del Paese si isolavano nelle cucine e nelle sale da pranzo per evitare di essere contaminati dalle caste inferiori, e come le latrine pubbliche potevano essere pulite soltanto dagli «intoccabili», altrimenti venivano lasciate sporche.
Lo sradicamento dell'«intoccabilità» divenne un punto cardine della sua campagna; gli altri tre dei «quattro pilastri» erano l'alleanza fra indù e mu-sulmani, la promozione dei tessuti fatti a mano per favorire l'autosufficienza, e la nonviolenza sia nella tattica sia nella disciplina. Que-sto sarebbe stato il suo dharma, ciò che la storica Judith Brown ha definito la sua «moralità in azione».
Procedendo al suo solito modo, fondò un ashram – una comunità – con famiglia e amici a Wardha, insistendo perché le sue regole venissero osser-vate scrupolosamente. Ciononostante, ci furono numerose ribellioni: sua moglie Kasturba trovava difficile vivere assieme a dei membri della casta degli «intoccabili» e, in particolare, non voleva pulire i loro vasi da notte, una provocazione che Gandhi giudicava imperdonabile. La rimproverò poi con severità per essere entrata in un tempio che vietava l'accesso agli «in-toccabili». Dal canto suo, era raro che visitasse un tempio, e non pregava mai. Guidò una marcia verso l'antico tempio di Vaikom, nel Travancore, che non solo proibiva l'ingresso agli intoccabili ma vietava loro anche solo di camminare sulle strade che conducevano all'edificio sacro. Gandhi non riu-scì a oltrepassare i cartelli di divieto; gli venne concesso un incontro con i sacerdoti che venne però tenuto in un altro posto, e le sue richieste furono respinte con fermezza. Se ne andò via sconfitto; a proseguire la campagna sarebbero poi stati dei leader più radicali, come T. K. Madhavan e George Joseph.
Ironicamente, poi, Gandhi non riuscì a coinvolgere nella sua lotta contro l'«intoccabilità» il dottor B. R. Ambedkar, un «intoccabile» che si era laurea-to in legge e in economia e che, come Gandhi, venne invitato a una Tavola rotonda sull'India tenutasi a Londra nel 1931. Il Mahatma si alienò subito le sue simpatie proponendogli «di condividere l'onore […] di rappresentare gli interessi degli intoccabili». Al che Ambedkar rispose in tono gelido: «Io rap-presento pienamente le rivendicazioni della mia comunità». Riteneva che gli «intoccabili fossero custodi del proprio destino e che meritassero di avere un loro proprio movimento». Gandhi non approvava una loro separazione elettorale, temendo che «una rappresentanza speciale per gli intoccabili fini-rebbe per perpetuare l'intoccabilità […] "Gli intoccabili dovranno rimanere tali in eterno?"». Esasperato, Ambedkar auspicò infine, come soluzione, una conversione di massa al buddhismo, essendo quest'ultima una religione pri-va del sistema delle caste; Gandhi rimase confuso.
Come presidente dell'Indian National Congress, Gandhi comprese che per creare un partito con un'unica aspirazione nazionale era necessario coinvolgere la minoranza musulmana nel perseguimento del fine comune dell'autogoverno, o swaraj. In Sudafrica si era mantenuto in buoni rapporti con i musulmani, ma in India dovette faticare. Si era guadagnato, scrive Lelyveld, due sostenitori musulmani della prim'ora nei fratelli Ali, Mu-hammad e Shaukat, e simpatizzava con la loro causa, il ritorno del califfato ottomano, anche se questo obiettivo era considerato donchisciottesco persi-no da alcuni musulmani e, di certo, non piaceva ai britannici. Questi ultimi misero i fratelli in carcere, e in Turchia Mustafà Kemal Atatürk abolì il calif-fato e mandò l'ultimo sultano in esilio, segnando la fine del movimento Khi-lafat in India. Con Muhammad Ali Jinnah, il leader della Lega musulmana, in teoria un'alleanza sarebbe anche stata possibile: entrambi gli uomini ve-nivano dal Gujarat e aveva studiato legge in Inghilterra. Tuttavia, a parte questo i due leader avevano poco in comune, e Jinnah non poteva nasconde-re i suoi sospetti che il Partito del congresso fosse interessato soltanto alla creazione di uno Stato indù.
Poi ci fu l'ardente sostegno, da parte di Gandhi, del filatoio a mano, vi-sto come uno strumento di liberazione dall'importazione forzata dei tessuti prodotti in Gran Bretagna. Questo strumento diventò un simbolo popolare, ma innescò anche violente rivolte quando le folle inferocite iniziarono a dar fuoco ai beni importati; e, come scrive Lelyveld, anche un patriota come il poeta e premio Nobel Rabindranath Tagore la definì come una campagna mal indirizzata e destinata al fallimento. Fu Tagore a dare a Gandhi il titolo onorifico di Mahatma – Grande anima –, e quest'ultimo lo soprannominò in cambio «Grande sentinella». Ma, nonostante tutti i loro scambi di compli-menti, i due avevano poco in comune: uno era un artista aristocratico, l'altro un asceta populista. Tagore rimase atterrito di fronte alle irrazionali affermazioni di Gandhi secondo le quali il terremoto che aveva colpito il Bi-har nel 1934 era stato una punizione per il peccato dell'intoccabilità.

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