Il Sole 24 Ore
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1 maggio 2011

Il lato oscuro di Gandhi

di Anita Desai


Già quand'era ancora in vita, la leggenda di Gandhi era cresciuta a tal punto che il Mahatma, come uomo, era praticamente scomparso. Con il suo nuovo libro, Joseph Lelyveld si mette sulle sue tracce. Il sottotitolo ci avverte che non si tratta di una biografia convenzionale, in quanto l'autore non presenta la storia ben documentata della lotta di Gandhi per l'India quanto piuttosto la sua lotta con l'India, il Paese che, assieme a un indiscusso amore, suscita-va in lui sgomento, rabbia ed esasperazione.

All'inizio del libro, Lelyveld abbandona le convenzioni della biografia sorvolando sugli anni dell'infanzia e degli studi di Gandhi, ritenendo che il giovane avvocato ventitreenne arrivato in Sudafrica nel 1893 non aveva molto dell'uomo che sarebbe diventato. Inoltre, la sua nascita in una cittadina del Gujarat (sulle coste occidentali dell'India), l'infanzia in una famiglia tradizionale – di osservanza giainista – appartenente alla casta mercantile Modh bania, e i tre anni trascorsi poi a Londra a studiare legge, vengono già presentati in modo dettagliato e con una disarmante vivacità nell'autobiografia del Mahatma stesso, La mia vita per la libertà (Newton, Roma 2007). Lelyveld ritiene che sia stato il Sudafrica a trasformare Gandhi nel leader visionario diventato poi leggenda; non è il primo o l'unico storico ad aver evidenziato questo passaggio, ma rispetto agli altri autori egli può attingere a conoscenze di prima mano basate sugli anni da lui trascorsi co-me corrispondente del New York Times in Sudafrica e in India, nonché alle ampie ricerche che ha condotto con una rara ed equilibrata simpatia per il personaggio.

Avendo accettato l'incarico di assistere come traduttore in una causa ci-vile fra due mercanti musulmani provenienti dall'India, Gandhi si presentò al tribunale di Durban il 23 maggio 1893, il giorno dopo il suo arrivo, vesti-to in abiti eleganti, con un soprabito a doppiopetto, un paio di pantaloni a righe e un turbante nero; di fronte all'immediato ordine di togliersi il tur-bante, si rifiutò di obbedire, lasciò la corte e scrisse una lettera infuocata di protesta alla stampa. Questo fu il suo primo atto politico, precedente al fa-moso episodio (raccontato nel film Gandhi di Richard Attenborough e in Sa-tyagraha di Philip Glass) in cui un inglese che non voleva viaggiare assieme a un «uomo di colore» lo costrinse a scendere da un treno. Per quanto ciò possa sembrare curioso per un indiano, pare che questo sia stato il suo pri-mo incontro con l'arroganza coloniale; stando alla sua autobiografia, fu a causa di questo episodio che si decise a rimanere per «sradicare il morbo» del «pregiudizio di colore». Fu l'inizio della sua «eterna opposizione», come l'avrebbe chiamata Erik Erikson, ma fu anche un esempio, sottolinea Lel-yveld, di un atteggiamento molto più complesso riguardo alla razza, il colo-re e la casta, che il Mahatma aveva portato con sé dall'India.

Fu uno shock, per Gandhi, scoprire che in Sudafrica era considerato un «coolie», un termine che in India era riservato a chi svolgeva un lavoro ma-nuale, in particolare i facchini. In Sudafrica, la maggioranza degli indiani era costituita da operai Tamil, Telugu e Bihari, giunti a Natal per lavorare a contratto per cinque anni nelle ferrovie, nelle piantagioni e nelle miniere di carbone; venivano indicati collettivamente come «coolie», e Gandhi era con-siderato un «avvocato coolie».

Ciononostante, aveva una grande fiducia nel proclama del 1858 della re-gina Vittoria, che estendeva formalmente la sovranità britannica sull'India e prometteva ai suoi abitanti la stessa protezione e gli stessi privilegi di tutti gli altri sudditi, esprimendo il desiderio che i sudditi indiani «venissero ammessi liberamente e con imparzialità ai nostri uffici». Così, quando nel 1899 scoppiò la guerra anglo-boera (seguita poi, nel 1906, dalla rivolta degli zulu), Gandhi spinse la comunità indiana (era entrato nel Natal Indian Con-gress) a offrire i suoi servigi alla potenza coloniale come «cittadini a pieno titolo dell'impero britannico, pronti a farsi carico dei loro obblighi e a meri-tarsi i diritti loro concessi». Era orgoglioso di essere al comando dell'unità dei barellieri indiani; un inizio alquanto improbabile, potremmo pensare, per un uomo che sarebbe diventato l'ispiratore della lotta per la libertà in India e in altri Paesi del mondo.

Fu con l'approvazione, nel 1906, del cosiddetto Black Act, che costringe-va gli indiani che vivevano nella provincia di Transvaal a registrarsi, che Gandhi iniziò a tenere degli incontri e a incitare i suoi compagni a bruciare i permessi che dovevano portare con sé; fu così, scrisse, che si ritrovò condot-to in una prigione per i cafri… Va bene non essere classificato assieme ai bianchi, ma essere messo sullo stesso livello dei nativi africani gli sembrava davvero troppo. Era senza dubbio giusto che gli indiani dovessero avere delle celle separate: i cafri erano degli incivili già normalmente, figurarsi i criminali. Erano individui molesti, sporchi, e vivevano quasi come animali.
Gli africani non potevano ignorare il disprezzo mostrato da Gandhi nei loro confronti: i giornali zulu scrissero che gli indiani correvano a lavorare come volontari per i «selvaggi inglesi in Natal», e anche una pubblicazione indiana in Inghilterra definì «disgustosa» la disponibilità di Gandhi a servi-re i bianchi. Fu solo molto tempo dopo (e grazie al senno di poi) che il Ma-hatma dichiarò che «il mio cuore era con gli zulu», affermando che le cru-deltà che aveva visto compiere contro di loro erano state «il più grande pun-to di svolta della sua vita spirituale», quello che lo avrebbe portato ad ab-bracciare, come strategia di resistenza, la nonviolenza. Quest'ultima diven-ne nota col termine di satyagraha, che tradotto letteralmente significa «forza della verità» o «fermezza nella verità».
Fu questa la strategia da lui adottata nel 1913, quando lanciò una cam-pagna contro la cosiddetta «capitazione», un pagamento richiesto a ogni in-diano che aveva concluso il suo periodo concordato di lavoro nel Transvaal e voleva rimanervi. La tassa non riguardava in nessun modo i nativi ma su-scitò una rivolta tra i lavoratori a contratto, uno sviluppo che Gandhi non aveva previsto. Gli indiani abbandonarono piantagioni, ferrovie, miniere e ogni altra attività che esercitavano nelle città, dando vita a uno sciopero su vasta scala che costituì il primo evento significativo della carriera di Gan-dhi. «Non ero preparato a questo meraviglioso risveglio» disse. «Come un turbine», scrive Lelyveld, il Mahatma viaggiava in treno da un'adunata all'altra, esortando gli scioperanti a riempire le celle fino a farle straripare. (In seguito, gli africani avrebbero usato questa stessa strategia di resistenza passiva nella loro lotta.) Il generale Jan Smuts chiamò l'esercito per repri-mere lo sciopero, cosa che venne fatta con brutalità.
Quando lo sciopero fu revocato, Gandhi venne acclamato dalle folle; or-mai si vedeva come il rappresentante non solo degli indiani appartenenti al-la classe mercantile, ma anche di quelli delle caste più basse, quei lavoratori a contratto di cui in precedenza non si era interessato. Aveva così trovato la sua vocazione, ma il risultato – l'Indian Relief Act del 1914 – era ancora molto lontano dagli obiettivi dell'agitazione. Come i critici dell'epoca, Lel-yveld sottolinea che gli indiani non avevano ancora diritti politici in Suda-frica – e non li avrebbero avuti per un altro secolo. Il sistema del lavoro a contratto venne infine abbandonato, ma questa non era stata una delle ri-chieste di Gandhi.
Mentre si consumavano questi disordini pubblici, Gandhi faceva fronte an-che a dei cambiamenti nella sua vita personale e domestica, a partire dalla fondazione di una piccola comunità rurale autosufficiente nei pressi di Dur-ban, Phoenix Farm, con la sua famiglia e qualche amico. Ognuno doveva prender parte a tutte le attività, dalla redazione e dalla stampa del suo gior-nale, Indian Opinion, fino alla coltivazione della terra. Fu qui che Gandhi mise all'opera i principi della sua vita ideale: il vegetarianismo, le cure na-turali per ogni malattia, l'istruzione domestica per i suoi figli, l'estrema au-sterità in ogni aspetto della vita. La «frugalità» era lo standard su cui misu-rare la dieta: un pasto completo veniva considerato «un crimine contro l'uomo e Dio». Convintosi che «nessun uomo che vivesse la sua vita animale fosse in grado di comprendere l'etica o la spiritualità», fece voto di celibato, una scelta condivisa dalla moglie.
Gandhi non seguiva la tradizionale formula indiana: il suo ashram non si basava sulla religione ma su un umanesimo universale. Come era giunto a questa posizione? Lelyveld ritiene che «se ci fu una singola esperienza dav-vero determinante nel suo sviluppo intellettuale», si trattò senza dubbio della lettura di Il Regno di Dio è dentro di voi di Tolstoy. Il rivoluzionario in-dù Sri Aurobindo arrivò a dire che «Gandhi è un europeo, un cristiano russo in un corpo indiano».
Lelyveld ha scoperto che Gandhi veniva più o meno ad abbandonare la sua famiglia a Natal per diversi mesi alla volta, nonostante le lamentele del-la consorte e del figlio maggiore Harilal che si sentivano trascurati («[Hari-ral] ritiene che io abbia sempre trascurato molto tutti e quattro i ragazzi […] che li abbia sempre messi per ultimi, assieme a Ba» scrisse il Mahatma in tono spassionato). Quando suo fratello Laxmidas lo rimproverò dicendogli che stava venendo meno ai suoi obblighi familiari, lui rispose con serenità che «Ora la mia famiglia comprende tutti gli esseri viventi» e procedette a formarsi una famiglia surrogata composta soprattutto da teosofi europei che condividevano il suo entusiasmo per Tolstoy e Ruskin. Visse per un certo periodo assieme al giovane redattore Henry Polak e sua moglie Millie, quindi andò ad abitare con l'architetto ebreo della Prussia orientale Her-mann Kallenbach. Assieme crearono un'altra «utopia» rurale, Tolstoy Farm, a sud-ovest di Johannesburg; pare che qui Gandhi fosse più felice che mai, godendosi l'amicizia di Kallenbach e facendo picnic e gite in bicicletta.
Si trattava di un'amicizia molto intima – anche romantica, suggerisce Lelyveld – e Kallenbach avrebbe seguito Gandhi nella sua partenza per l'India, nel 1914, se non fosse scoppiata la Prima guerra mondiale e non gli fosse stato quindi interdetto l'ingresso in territorio britannico. Tutti i tenta-tivi di Gandhi di procurargli un visto fallirono; i due amici si sarebbero in-contrati di nuovo soltanto dopo ventitre anni, quando Kallenbach aveva ab-bracciato il sionismo ed era entrato in un kibbutz in Israele.
Gandhi aveva fatto voto di trascorrere il suo primo anno dopo il ritorno in India viaggiando per il Paese in modo da rendersi conto di quali fossero le sue condizioni. Lo fece in treno, in uno scompartimento di terza classe, un'abitudine che avrebbe poi mantenuto per tutta la vita imponendola an-che al suo entourage, che sarebbe diventato enorme (scherzandoci su, il poe-ta indiano Sarojini Naidu disse: «Dio solo sa quanto ci costa mantenere quel vecchio, meraviglioso sant'uomo nella sua povertà!»). La sua fama di leader della satyagraha, in virtù dei suoi trascorsi con gli indiani in Sudafrica, lo aveva preceduto e ovunque andasse si radunavano folle di dieci-ventimila persone, prostrandosi per toccargli i piedi in segno di rispetto, una tradi-zione indiana che lo infastidiva parecchio. «Oh, Dio,» si lamentava «salvami da amici, seguaci e adulatori!».
Ciò che vide in questi viaggi lo spinse ad abbracciare la causa dei conta-dini sfruttati che lavoravano nelle piantagioni di indigofera del Bihar e nel distretto di Kheda colpito dalla siccità, dove i coltivatori erano vittime delle pesanti tasse e della confisca delle terre, nonché dei lavoratori degli opifici di Bombay e Ahmedabad. Ormai non si vestiva più come un elegante avvo-cato, ma come un semplice lavoratore. Naturalmente, conosceva fin da pic-colo il sistema delle caste, ma la sua ingiustizia – che condannava le caste inferiori a vivere nella povertà e nel degrado – lo colpì con particolare forza quando partecipò per la prima volta a un'assemblea dell'Indian National Congress a Calcutta e vide come i delegati bramini provenienti dal Sud del Paese si isolavano nelle cucine e nelle sale da pranzo per evitare di essere contaminati dalle caste inferiori, e come le latrine pubbliche potevano essere pulite soltanto dagli «intoccabili», altrimenti venivano lasciate sporche.
Lo sradicamento dell'«intoccabilità» divenne un punto cardine della sua campagna; gli altri tre dei «quattro pilastri» erano l'alleanza fra indù e mu-sulmani, la promozione dei tessuti fatti a mano per favorire l'autosufficienza, e la nonviolenza sia nella tattica sia nella disciplina. Que-sto sarebbe stato il suo dharma, ciò che la storica Judith Brown ha definito la sua «moralità in azione».
Procedendo al suo solito modo, fondò un ashram – una comunità – con famiglia e amici a Wardha, insistendo perché le sue regole venissero osser-vate scrupolosamente. Ciononostante, ci furono numerose ribellioni: sua moglie Kasturba trovava difficile vivere assieme a dei membri della casta degli «intoccabili» e, in particolare, non voleva pulire i loro vasi da notte, una provocazione che Gandhi giudicava imperdonabile. La rimproverò poi con severità per essere entrata in un tempio che vietava l'accesso agli «in-toccabili». Dal canto suo, era raro che visitasse un tempio, e non pregava mai. Guidò una marcia verso l'antico tempio di Vaikom, nel Travancore, che non solo proibiva l'ingresso agli intoccabili ma vietava loro anche solo di camminare sulle strade che conducevano all'edificio sacro. Gandhi non riu-scì a oltrepassare i cartelli di divieto; gli venne concesso un incontro con i sacerdoti che venne però tenuto in un altro posto, e le sue richieste furono respinte con fermezza. Se ne andò via sconfitto; a proseguire la campagna sarebbero poi stati dei leader più radicali, come T. K. Madhavan e George Joseph.
Ironicamente, poi, Gandhi non riuscì a coinvolgere nella sua lotta contro l'«intoccabilità» il dottor B. R. Ambedkar, un «intoccabile» che si era laurea-to in legge e in economia e che, come Gandhi, venne invitato a una Tavola rotonda sull'India tenutasi a Londra nel 1931. Il Mahatma si alienò subito le sue simpatie proponendogli «di condividere l'onore […] di rappresentare gli interessi degli intoccabili». Al che Ambedkar rispose in tono gelido: «Io rap-presento pienamente le rivendicazioni della mia comunità». Riteneva che gli «intoccabili fossero custodi del proprio destino e che meritassero di avere un loro proprio movimento». Gandhi non approvava una loro separazione elettorale, temendo che «una rappresentanza speciale per gli intoccabili fini-rebbe per perpetuare l'intoccabilità […] "Gli intoccabili dovranno rimanere tali in eterno?"». Esasperato, Ambedkar auspicò infine, come soluzione, una conversione di massa al buddhismo, essendo quest'ultima una religione pri-va del sistema delle caste; Gandhi rimase confuso.
Come presidente dell'Indian National Congress, Gandhi comprese che per creare un partito con un'unica aspirazione nazionale era necessario coinvolgere la minoranza musulmana nel perseguimento del fine comune dell'autogoverno, o swaraj. In Sudafrica si era mantenuto in buoni rapporti con i musulmani, ma in India dovette faticare. Si era guadagnato, scrive Lelyveld, due sostenitori musulmani della prim'ora nei fratelli Ali, Mu-hammad e Shaukat, e simpatizzava con la loro causa, il ritorno del califfato ottomano, anche se questo obiettivo era considerato donchisciottesco persi-no da alcuni musulmani e, di certo, non piaceva ai britannici. Questi ultimi misero i fratelli in carcere, e in Turchia Mustafà Kemal Atatürk abolì il calif-fato e mandò l'ultimo sultano in esilio, segnando la fine del movimento Khi-lafat in India. Con Muhammad Ali Jinnah, il leader della Lega musulmana, in teoria un'alleanza sarebbe anche stata possibile: entrambi gli uomini ve-nivano dal Gujarat e aveva studiato legge in Inghilterra. Tuttavia, a parte questo i due leader avevano poco in comune, e Jinnah non poteva nasconde-re i suoi sospetti che il Partito del congresso fosse interessato soltanto alla creazione di uno Stato indù.
Poi ci fu l'ardente sostegno, da parte di Gandhi, del filatoio a mano, vi-sto come uno strumento di liberazione dall'importazione forzata dei tessuti prodotti in Gran Bretagna. Questo strumento diventò un simbolo popolare, ma innescò anche violente rivolte quando le folle inferocite iniziarono a dar fuoco ai beni importati; e, come scrive Lelyveld, anche un patriota come il poeta e premio Nobel Rabindranath Tagore la definì come una campagna mal indirizzata e destinata al fallimento. Fu Tagore a dare a Gandhi il titolo onorifico di Mahatma – Grande anima –, e quest'ultimo lo soprannominò in cambio «Grande sentinella». Ma, nonostante tutti i loro scambi di compli-menti, i due avevano poco in comune: uno era un artista aristocratico, l'altro un asceta populista. Tagore rimase atterrito di fronte alle irrazionali affermazioni di Gandhi secondo le quali il terremoto che aveva colpito il Bi-har nel 1934 era stato una punizione per il peccato dell'intoccabilità.
Nelle vesti di leader del Partito del congresso, era compito di Gandhi ri-conciliare tutte queste fazioni, con le loro richieste contrapposte e i loro conflitti. Un'occasione per agire all'unisono si ebbe nel 1919, quando la po-lizia britannica aprì il fuoco su una folla disarmata che si era raccolta per protestare a Jallianwalla Bagh, un parco recintato nella città di Amritsar, uccidendo centinaia di persone. La reazione fu diffusa e Gandhi lanciò il suo movimento di non-cooperazione, chiedendo ai giudici e agli avvocati di boicottare i tribunali, agli studenti le loro scuole e ai soldati le loro unità, e a chi aveva ricevuto medaglie e onorificenze di restituirle (come fece subito Tagore con il suo cavalierato). Nel tentativo di fermare il movimento, i bri-tannici imprigionarono Gandhi.
Continuarono a farlo di fronte ai suoi atti di sfida, ma ciò non scalfì mi-nimamente la sua influenza. In carcere, Gandhi iniziava a digiunare e la na-zione restava col fiato sospeso finché non acconsentiva a sospendere lo sciopero della fame. Mentre il suo corpo si faceva sempre più esile, osserva Lelyveld, il suo potere politico e spirituale continuava a crescere. Assieme al filatoio a mano, lo sciopero della fame divenne l'altro simbolo distintivo della protesta gandhiana. Nel 1930, la sua genialità nel cogliere i gesti ispi-rati lo portò a guidare una marcia di trecento chilometri dal suo ashram fino a Dandi, sul Mar Arabico, fra le ali di folla accorse lungo la strada per ap-plaudirlo. Con «la bellezza e la semplicità di una fresca visione artistica», scrive Lelyveld, si chinò a raccogliere un pugno di sale sulla spiaggia in se-gno di sfida contro la tassa imposta dai britannici su un bene così umile e indispensabile. Sarojini Naidu lo acclamò come «Liberatore». La polizia ar-rivò con gli sfollagente, ruppero un po' di teste e Gandhi venne ricondotto in prigione nel maggio 1930. Jawaharial Nehru, il futuro leader del Partito del congresso e il primo capo del governo indiano, commentò: «Non so che cosa ci porterà il futuro, ma il passato ha reso la vita degna di essere vissuta e la nostra prosaica esistenza si è trasformata in qualcosa di epico».
I momenti di trionfo portano in sé i semi della rovina. Gandhi, liberato dal carcere nel gennaio 1931, non riusciva più a tenere assieme il movimento con questi gesti, per quanto forti e significativi potessero essere. Stanco e affaticato, il Mahatma si autoimpose una specie di esilio, ritirandosi in un piccolo villaggio dell'India occidentale nell'estate del 1936, ma attorno a lui sorse rapidamente un ashram (Sevagram, o «Villaggio del servizio»). Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, la sua proposta di sostenere lo sfor-zo bellico britannico venne respinta dal Partito del congresso, che non offrì nulla di più di un appoggio condizionato alla concessione dell'indipendenza indiana. L'offerta venne respinta dal governo dei Tory; Churchill commentò che non era diventato Primo ministro per presiedere alla disintegrazione dell'impero britannico. «Andatevene dall'India!» divenne allora il grido di battaglia di un ultimo, duro sforzo per ottenere la libertà dalla Gran Breta-gna. Gandhi venne di nuovo messo agli arresti (nell'ex palazzo dell'Aga Khan, nei pressi di Poona); la sua povera moglie, che continuava a seguirlo fedelmente, sarebbe morta lì.
Il Mahatma venne rilasciato nel 1944 e il governo britannico, esausto per la guerra e ora guidato da un gabinetto laburista, sperava in un compromes-so a cui avrebbero aderito tutte le fazioni indiane. Gandhi partì subito per Bombay per negoziare con Jinnah, che vedeva ora come unica soluzione la creazione di una nazione musulmana separata. Il treno su cui viaggiava Gandhi venne preso a sassate dalla folla, che cercava di impedirgli di fare concessioni; Jinnah rimase però inflessibile e la spartizione dell'India di-venne inevitabile. In tutto il Paese infuriarono rivolte e scontri di piazza fra indù e musulmani. Anziché rimanere nella capitale per le celebrazioni della vittoria che si sarebbero tenute nell'agosto 1947, Gandhi partì per Calcutta (lasciando Nehru a issare la bandiera nazionale sul Forte Rosso e a tenere il suo famoso discorso su «Un appuntamento col destino»), dicendo che le gri-da gioiose di «Jai Hind!» («Gloria all'India!») lo infastidivano.
Una delle ultime e più toccanti sezioni del libro di Lelyveld ci presenta Gandhi all'inizio del 1947 mentre – assieme ai suoi seguaci, ora una piccola banda – cammina a piedi nudi di villaggio in villaggio (quarantasette in tut-to) nella regione a maggioranza musulmana di Noakhali, cantando la canzo-ne di Tagore «Ekla Chalo»: «Se nessuno risponde alla tua chiamata, cammi-na da solo, cammina da solo». L'atto più strano di questo dramma, come e-videnzia Lelyveld, è la scelta, da parte di Gandhi, di un momento simile per il suo ultimo «esperimento con la verità». Richiese la presenza della figlia diciassettenne di un suo nipote, Manu, che si prendesse cura delle sue ne-cessità fisiche: controllare la sua dieta, fargli il bagno quotidiano e il mas-saggio con gli oli, ma anche dormire di fianco a lui sul suo letto da campo, restando il più nuda possibile, così che egli potesse mettere alla prova la propria dedizione al celibato. A quanto pare, pensava che se lui fosse stato in grado di sottomettere gli impulsi animali nel suo corpo, il Paese avrebbe potuto sottomettere la sua bramosia di violenza. Incapaci di cogliere il le-game che Gandhi aveva sempre posto fra sesso e violenza da una parte e a-stinenza e nonviolenza dall'altra, anche i suoi seguaci più devoti rimasero scioccati, e molti se ne andarono.
La fine arrivò nel 1947, quando Manu chiese il permesso di andarsene e Gandhi venne convinto a trasferirsi a Delhi, dove si stava preparando la nuova costituzione (sotto la guida del dottor Ambedkar). Sembra però che Gandhi non fosse interessato a dare un suo contributo; trascorreva invece il suo tempo pregando e digiunando nella casa di un suo vecchio amico, il ric-co industriale G. D. Birla (per ragioni di sicurezza, non poteva fermarsi co-me al suo solito nella colonia degli spazzini), mentre all'esterno i sikh che avevano perso le loro terre finite al Pakistan gridavano «Morte a Gandhi!» e «Sangue per sangue!». Durante uno degli incontri serali di preghiera che te-neva in giardino, l'indù ortodosso Nahuram Godse, che aveva scritto feroci articoli in cui denunciava una presunta accondiscendenza di Gandhi verso i musulmani, entrò portando un'arma nascosta (il Mahatma non voleva che la polizia perquisisse i partecipanti agli incontri) e, spingendo via Manu, che accompagnava il Mahatma, lo colpì di netto. Si racconta che cadde a terra con il nome di Dio («Rama, Rama») sulle labbra, come aveva detto a Manu che sperava di fare; in effetti, sembrava che stesse quasi cercando la morte. Se mai ci fu nella storia una Cronaca di una morte annunciata, questa fu pro-prio la sua. Venne cremato fra scene di caos, confusione e disperazione sen-za precedenti, con milioni di persone che parteciparono al suo funerale (per un'ultima ironia della sorte, fu un funerale di Stato, con tutti gli onori mili-tari); le sue ceneri vennero disperse per tutta l'India e, nel 2010, una piccola parte fu portata sulla costa di Durban, in Sudafrica. Nehru assunse la guida del Partito, chiarendo che «Il Congresso devo ora governare, non opporsi al governo». Nei suoi progetti, erano di importanza cruciale la creazione di un esercito moderno e una rapida industrializzazione; nemmeno lui, però, po-teva aver previsto come la sua visione avrebbe sconvolto totalmente quella di Gandhi.
Quando Lelyveld si è messo alla ricerca di ciò che potrebbe essere rima-sto di Gandhi, ciò che ha trovato, a parte molti archivi e lettere, sono stati alcuni patetici oggetti in polverosi musei – un telaio a mano cigolante, alcu-ne fotografie inghirlandate del «Padre della Nazione» – e qualche fedele gandhiano che, nonostante tutto, vive ancora una vita di sacrificio e di ser-vizio. Tuttavia, restano ancora molte cose che Gandhi riconoscerebbe come l'«eterna India» della povertà e della tradizione. Nello Stato di Noakhali, Lelyveld ha trovato il villaggio di Srirampur, dove Gandhi aveva preso ri-fugio, immobile come se il tempo si fosse fermato. La luce del sole filtra at-traverso le palme, le risaie lo circondano, gli uomini ciondolano attorno alla sala da tè. Sentendo il nome di Gandhi, qualcuno fa un passo avanti per in-dicare i luoghi associati alla sua persona: questo è il punto dove c'era la sua capanna, questo è il tempietto sotto un fico del Banyan dove si attardava. Le voci si fanno sommesse. Il suo nome evoca una formale riverenza, anche fra quelli che non hanno mai conosciuto i dettagli del tempo da lui trascorso qui.
Lelyveld ha demolito così tanti miti e ha accumulato così tante sconfitte che la sua vita di Gandhi potrebbe essere facilmente letta come un'opera in sostanza critica, per quanto costruita con giudizio e attenzione. Dopotutto, per quanto il suo nome sia collegato alla lotta per la libertà in Sudafrica, Gandhi non ha praticamente nessun contatto con l'Africa o il suo popolo. La sua campagna contro l'«intoccabilità» in India ebbe un successo limitato, persino all'interno della sua stessa famiglia e del suo circolo. La nuova co-stituzione ha messo fuorilegge l'«intoccabilità» e ha creato un sistema di posti «riservati» per gli intoccabili – nelle scuole, nei college e negli incari-chi governativi –, ma ciò ha periodicamente condotto ad accesi dibattiti e violenti scontri con coloro che ritengono ingiustificati questi privilegi. L'atteggiamento tradizionale non è svanito e le condizioni di vita per i più poveri e per i molti lavoratori manuali non sono migliorate di molto dai tempi di Gandhi.
La cosa più triste, poi, è che Gandhi non è riuscito a fermare l'antagonismo fra indù e musulmani: quest'ultimo si è trasformato nell'ostilità fra India e Pakistan, sfociata in diverse guerre e in un perduran-te atteggiamento di sospetto fra i due Paesi. Lelyveld descrive nei dettagli l'incapacità di Gandhi di costruire relazioni produttive con altri leader co-me Jinnah e Ambedkar, mentre dice poco riguardo alla felice e fruttuosa col-laborazione con altri, come per esempio Nehru.
Qualcuno potrebbe pensare che l'eredità di Gandhi, nel complesso, sia stata rappresentata in termini negativi; tuttavia, è impossibile negare la pro-fonda simpatia di Lelyveld per il personaggio. Il quadro che emerge è quello di una persona intensamente umana, con tutti i difetti e le debolezze che questo implica, ma anche un visionario con una profonda coscienza sociale e un grande coraggio, che ha dato al mondo un modello di rivoluzione non-violenta dal quale possiamo ancora trarre ispirazione. È stato un modello di rivoluzione sia sul piano più ampio della politica, sia su quello personale e domestico: nulla era privo di importanza agli occhi di Gandhi, e nulla era impossibile. Si era imposto degli standard altissimi, ai limiti dell'impossibile, e lottava personalmente per raggiungerli. Così, se alla fine sembra che sia finito tutto in tragedia, non è perché, scrive Lelyveld, Gan-dhi è stato assassinato, né perché le sue nobili qualità abbiano acceso l'odio nel cuore del suo assassino. L'elemento tragico è che anche lui, come Lear, è stato infine costretto a vedere i limiti della propria ambizione di rifare il suo mondo.
© 2011 The New York Review of Books
Distributed by The New York Times Syndicate
Traduzione di Daniele Didero


1 maggio 2011