Il Sole 24 Ore
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I Catari leggenda fatta di spirito

Gianfranco Ravasi


In una primavera limpida e ventosa del 1317, lungo la strada per Pamiers nella Linguadoca francese che correva tra le montagne del Sabartès, avanzava un personaggio forte e segaligno, il cisterciense Jacques Fournier, destinato a diventare vescovo di quella città. Una ventina d'anni dopo, nel 1334, questo figlio di mugnaio sarebbe stato eletto ad Avignone, durante la celebre "cattività", papa col nome di Benedetto XII. Con la rudezza che lo contraddistingueva, aveva reagito così nei confronti dei cardinali elettori: «Ma fratelli, che cosa avete fatto? Avete eletto un asino!». Il suo desiderio era quello di riportare la Sede apostolica a Roma, ma l'opposizione di Filippo di Valois e dei cardinali, abituati ai dolci ozi di Avignone, aveva frustrato il sogno di questo monaco divenuto papa, ma rimasto nell'anima e nello stile di vita un fervido credente e un asceta.
La sua figura si era incrociata, però, soprattutto con gli ultimi Catari che avevano attizzato una fiammata spirituale potente durante il secolo precedente sfociata in una fiamma concreta, quando il 16 marzo 1244 ai piedi dell'altipiano di Montségur, ultimo loro baluardo, ben 220 torce umane in un rogo impressionante avevano suggellato un periodo storico glorioso per questa eresia di stampo dualistico e rigorista. Anche se essi non si denominarono mai così, il termine "cataro" derivava del greco katharós, "puro", ma i loro avversari – a partire da Alano di Lilla nel suo De fide catholica contra hereticos – preferivano spregiativamente rimandare a catus, "gatto", un segno diabolico, accusandoli di adorarlo. Conosciamo, in verità, abbastanza bene la loro dottrina e i loro riti attraverso testi a noi giunti come Il libro dei due principi, la Cena segreta, la Visione di Isaia e vari loro rituali, oppure attraverso le contestazioni teologiche degli avversari come la Summa contra Catharos, un trattato sulla loro dogmatica, scritto da un ex adepto, tale Raynier Sacconi, passato poi ai domenicani.
La loro riforma religiosa, che aveva imboccato percorsi spesso radicali, si era innestata su una reale crisi spirituale e pastorale della Chiesa che san Bernardo così descriveva già nel 1145: «Le basiliche sono senza fedeli, i fedeli senza preti, i preti senza onore. Non vi sono più qui che cristiani senza Cristo. I sacramenti sono vilipesi, le feste solenni non sono più celebrate». Su questo vuoto i Catari, in particolare nella terra occitana, avevano costituito nella clandestinità una loro «Eglesia de Deu», come autentici discepoli di Cristo, nella povertà, con una loro liturgia essenziale che aveva nel consolamentum, il battesimo spirituale, il suo sacramento principale. Lo specchio di questa comunità, che aveva raccolto fedeli trasversalmente in tutte le classi sociali, è rintracciabile dal vivo negli interrogatori che gli Inquisitori – e tra questi spiccava appunto il fermo ma non crudele Jacques Fournier – conducevano, durante quel rigurgito che il catarismo ebbe in Occitania nei primi decenni del Trecento, dopo i roghi del secolo antecedente.
A offrici questa emozionante testimonianza in prima persona degli inquisiti è ora una studiosa milanese (note sono anche le ricerche del francese Michel Roquebert), Elena Bonoldi Gattermayer, che traduce gli atti di quegli interrogatori desumendoli dal manoscritto latino vaticano 4030, già reso integralmente in francese da Jean Duvernoy (Mouton, Parigi 1978). La selezione di una ventina di interrogatori è molto suggestiva perché riesce a rendere lo spettro variegato delle figure che sfilavano davanti all'Inquisitore, spesso esprimendosi nella lingua d'Oc, creando così problemi agli estensori dei verbali latini e agli stessi Inquisitori (non certo al futuro Benedetto XII che ben conosceva quella lingua). Così, accanto a modesti popolani e a pastori, si presentano un "balivo", ossia un alto funzionario, una donna nobile, una borghese, un imprenditore, un medico notaio, persino un ebreo battezzato e il capo del lebbrosario di Pamiers, accusato di elaborare filtri magici e veleni.
Entrano in scena anche personaggi che, dietro ricompensa, denunciavano i Catari alle autorità: nei loro confronti si procede con severità per verificare il loro comportamento. In un caso si registra anche il flusso di Catari verso l'estero, in cerca di riparo ad esempio in Lombardia. Altre volte, considerato il carattere esoterico della fede catara, si scava all'interno delle loro credenze: interessante è l'investigazione sulla testimonianza di una vedova per isolare la sua concezione dell'anima. I Catari, infatti, distinguevano tra "anima" e "spirito", quest'ultimo come sede di Dio nella persona, mentre la prima era il principio della sensibilità, dell'affettività e delle passioni. Su questa scia ci si inoltra anche, in un altro caso, nella visione dell'oltrevita. Si rivela, comunque, la fierezza di molti di questi inquisiti che intrecciano la fedeltà nei confronti delle loro convinzioni religiose a una coscienza della dignità della loro cultura, a tal punto da stupire il lettore di oggi. D'altronde, anche l'Inquisitore mostra nel rigore della sua investigazione un'accuratezza e un certo rispetto delle regole, non accontentandosi di un processo-farsa. Un ritratto, quindi, di un'epoca, ma anche di una società.
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il processo agli ultimi catari

Elena Bonoldi Gattermayer Jaca Book, Milano

pagg. 316|€ 24,00


da sapere


Chi erano
i Catari
Il catarismo costituì un movimento ereticale tra il XII e il XIV secolo. Con il nome di «albigesi» (dal nome della cittadina francese di Albi), furono poi designate le persone coinvolte nel sostegno religioso del movimento sorto intorno al XII secolo in Occitania.