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Tutti giù al tappeto

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Tutti giù al tappeto

  • –testo di Ferdinando Cotugno e Luciana Grosso, foto di Massimo Sciacca

«Don't try this at home». La scritta in sovrimpressione durante gli incontri di wrestling in televisione non deve essere stata molto efficace. Perché a rifare le cose che vedevano in tv, a rompersi le sedie sulla schiena, a ribaltarsi su un ring e rimbalzare sulle corde, Filippo, Christian, Giacomo, Mike, Emilio e Gabriele hanno voluto provare davvero: volevano fare le stesse cose degli energumeni colorati che vedevano da piccoli su Italia 1.

Sono nati così Crazy G, Cyber Punk, Psycho Mike, Mr. Excellent e le altre maschere del wrestling italiano. Alter ego minacciosi di ragazzi che non farebbero male a una mosca. Per diventare gli Hulk Hogan o Eddie Guerrero italiani ci sono voluti impegno, passione e una buona dose di compromessi.

Prima di tutto quello sulla location. Non Las Vegas, ma una palestra al secondo piano di un discount, a Torrebelvicino, paese di seimila anime nei pressi di Schio, in provincia di Vicenza. Si incontrano lì, la domenica pomeriggio. Un fight club di periferia immerso nel silenzio del weekend di un centro commerciale chiuso. Dentro di rumore ce n'è fin troppo; qualcuno, passando fuori, potrebbe pensare che ci si mena davvero. Non avrebbe tutti torti: tra i wrestler non c'è competizione ma ci si fa male sul serio. Un po' come da bambini, quando si faceva la lotta a scuola, e anche se si faceva per gioco si tornava a casa pieni di lividi. Il wrestling italiano è una passione che conta pochi, ma affezionatissimi, cultori.

La federazione Italian championship wrestling ha compiuto da poco dieci anni e, nonostante sia la terza in Europa per numero di spettacoli organizzati (più di duecento), gli iscritti non superano il centinaio di cui solo trenta pronti per combattere; anche le palestre attrezzate con il ring da wrestling, che ha le corde elastiche per rimbalzarci ed è vuoto sotto per fare molto rumore, sono pochissime. Il pubblico, benché appassionato e decisamente poco impressionabile, non è fatto di grandi numeri: giusto quello che serve per riempire le prime file di un palazzetto dello sport o le sedie di una palestra comunale sul retro di una biblioteca. Pochi, ma determinati a sgolarsi per scaldare i loro energumeni del cuore. Per combattere serve più di un anno di preparazione e solo un maestro può dire all'allievo se e quando è pronto. E pronto vuol dire due cose: un fisico che sa cadere e un personaggio che sa stare in piedi. Sì, perché il wrestling, che molti pensano sia una completa stupidaggine o una lotta molto violenta, in realtà non è niente di tutto questo: un'ampia parte è scrittura, sceneggiatura.

«I wrestler devono essere allo stesso tempo atleti, attori e divi del rock», ci spiega Mike, uno dei pionieri italiani della disciplina, che i nuovi ragazzi ascoltano e rispettano come un vecchio maestro di arti marziali. E quello che intende appare chiaro guardando un incontro. Il match dura una manciata di minuti, buona parte dei quali è spesa a recitare, a insultare avversario e arbitro, a incitare il pubblico; solo il resto è fatto di prese, cadute, sediate e schiaffi, che se sono dati bene fanno più rumore che male. Il combattimento finisce quando uno dei due (o dei quattro se si combatte a coppie) rimane schienato, ossia con la schiena a terra, per più di tre secondi. È così che si scopre che allenarsi quattro ore al giorno e imparare come colpire con una sedia l'avversario non basta: i wrestler sono sceneggiatori di se stessi, devono saper pensare e scrivere la propria storia. I combattimenti hanno le regole di un film, ci sono i buoni e i cattivi, c'è una trama e il finale a sorpresa.

Non è esattamente Bergman, ma funziona. L'importante è che il pubblico abbia un eroe per cui fare il tifo e un bastardo da odiare. «Il personaggio - raccontano mentre si preparano indossando il loro costume - è qualcosa che cominci a scrivere nella tua testa guardando gli incontri americani da bambino, che cresce con te e si plasma con il tuo carattere». Cyber Punk, che si chiama Christian, fa il fabbro a Bergamo e ha gli occhi buoni, per avere un costume perfetto ci si è messo d'impegno: è andato fino a Londra, a spulciarsi i mercatini per raver e impasticcati.

Il risultato è un gilet in latex, dei guanti da motociclista e un casco che ricalca la sua cresta punk. Tutti accessori che servono solo a scaldare il pubblico e che volano via prima del match. Quando sale sul ring, Cyber Punk è chiaramente un buono, e ne prende un sacco da Crazy G, che è cattivo, un pazzo ergastolano con tanto di catene. Se fosse uno sport, non ci sarebbero speranze. Ma dato che il pubblico medio del wrestling è composto da famiglie e bambini, è giusto che vincano i buoni e quindi il trionfo è del giovane punk di Bergamo. Ma un personaggio del wrestling, per quanto ben vestito, ben truccato e ben costruito, non può esistere senza un corpo allenato.

Servono tempo e molte ore di esercizio: soprattutto cardio - fiato e pesistica - e poi le mosse, le prese, i voli, gli attacchi da imparare e ripetere centinaia di volte, per non correre pericoli troppo grandi.
La prima regola, in queste palestre scalcinate, è: «Non fate male e non fatevi male». Facile a dirsi. A rispettarla ci si prova, ma non sempre ci si
riesce: Crazy G (Gabriele, venditore di spumanti), uno dei migliori wrestler italiani, tiene il conto dei suoi infortuni: «Tredici traumi cranici, un ginocchio esploso, due gomiti rotti. Una volta, dopo un match no limits, mi rimase una puntina da disegno incastrata dietro il collo. L'ha trovata giorni dopo, un po' stupito, un addetto alla sicurezza di un aeroporto.

Quando mi ha chiesto come ci fosse finita, gli ho detto di lasciar perdere, era troppo difficile da spiegare». Per evitare incidenti, la regola è usare il segnale segreto, che in teoria il pubblico non dovrebbe conoscere e che ferma immediatamente le ostilità: braccia incrociate sul petto. Vuol dire:

basta, non mi picchiate più. Senza questo gesto in codice sarebbe difficile capire cosa fa davvero male o cosa stanno vendendo. In gergo vendere significa massimizzare il rumore e le urla, come fossero le onomatopee di un fumetto, riducendo al minimo il dolore. «Non ho paura di rompermi le ossa, temo soltanto la paralisi, ma se anche succedesse, sarebbe arrivata facendo qualcosa che amo», dice Filippo, una delle nuove leve. È molto giovane e praticamente si sta laureando in wrestling: ha scelto di studiare Comunicazione a Padova e farà la tesi su questa sua passione.

Ancora non combatte («Aspetto che Mike, il mio allenatore, mi dica che sono pronto»), ma è già un'enciclopedia del wrestling mondiale e studia da ideologo del gruppo.
Il suo sogno è che la gente capisca che «il wrestling non sono botte, è comunicazione», una forma di espressione narrativa. Come i romanzi o il cinema. A questa ciurma di maestri di provincia e ragazzi che hanno guardato troppa tv serviva solo una cosa: un modello da seguire, efficace e un po' irraggiungibile, ma meno lontano di Hulk Hogan. Poi l'hanno trovato. È Mariel, arrivato in Italia a 9 anni dall'Albania, wrestler da quando ne aveva 16, e ora, che ne ha 23, già quasi una vecchia gloria, con tanto di posto nel Guinness dei Primati: è riuscito a fare 34 chokeslam doppi (significa che ha afferrato due persone per il collo, le ha sollevate e abbassate come fossero bilancieri per 34 volte in 60 secondi). Nell'ambiente è una vera celebrità. Quando arriva lui, l'allenamento si ferma e tutti vengono a stringergli la mano.

Il suo sguardo, ora, si allunga ben oltre la palestra di Schio, verso Hollywood. Per arrivarci è tornato a Tirana, dove un acconto sul successo gli è arrivato sotto forma di quarto posto al Grande Fratello della tv albanese. «Le botte che ho preso, e ne ho prese tante, hanno fatto di me quello che sono. Per me il wrestling è un trampolino, voglio fare spettacolo». Mariel sa che a un certo punto il suo corpo gli dirà basta. «Le cadute sono come il contachilometri della schiena. Ogni schiena ha un suo limite. Quando hai raggiunto il tuo ti devi fermare».

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