Il Sole 24 Ore
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Quando era bello piangere

Emiliano Morreale


Negli anni 50, i film italiani più amati erano quelli che facevano piangere. Il cinema hollywoodiano poteva essere anche il mondo dell'avventura e della raffinatezza, ma quello italiano era il posto dove piangere sulle sciagure di uomini e donne vicini a noi. Soprattutto donne: adultere o oltraggiate, sofferenti o maledette: comunque vittime, strette tra le immagini della santa o della peccatrice.
L'egemonia della commedia all'italiana e dei comici comincerà dopo, ininterrotta fino a oggi: ma all'epoca i grandi incassi italiani (con l'eccezione di Totò) sono i film strappalacrime: Catene (1949) di Raffaello Matarazzo inaugura un nuovo filone, trionfatore per anni al botteghino, e a riguardarlo oggi, è un'operazione mediale complessa, in cui entrano le influenze più diverse. Intanto, la tradizione della narrativa d'appendice, quella di derivazione romantica e soprattutto quella più "nera" di Carolina Invernizio. Poi, il neorealismo, che porta la forza dell'ambientazione contemporanea e l'emergere di temi dolenti (la guerra, l'emigrazione) sotto le trame passionali. Infine, la tradizione della sceneggiata napoletana: un sottogenere del mélo sarà proprio quello dei film tratti da celebri canzoni tipo Core 'ngrato. Senza dimenticare, in questo intreccio, un nuovo arrivato: il fotoromanzo, che questi ingredienti aveva prodotto una forma nuova, tutta italiana.
Il mélo italiano degli anni 50 affascina però anche perché lascia intravedere, oltre i film, il proprio pubblico. Un pubblico che vedeva i film e leggeva i fotoromanzi, ma che frequentava anche le mille forme di spettacolo popolare ancora ben vive nella penisola: i maggi toscani e l'opera dei pupi, le sacre rappresentazioni e i vari tipi di teatro di strada. Un pubblico a forte componente femminile, ma non solo: piangevano anche gli uomini.
I critici dell'epoca, impegnati a difesa del neorealismo, disprezzarono per lo più questi film, che furono recuperati dai giovani cinefili degli anni 70, ma che ancora oggi sono in parte da scoprire (e difficili da reperire). C'è un giacimento di titoli, che offre anche una prospettiva nuova su un cinema che magari crediamo di conoscere. Si può partire da un paio di sorprendenti Matarazzo, come L'angelo bianco (un accumulo folle di colpi di scena, e una trama che sembra anticipare La donna che visse due volte di Hitchcock) o La nave delle donne maledette, in cui il rimosso erotico del periodo viene infine alla luce: decine di donne prigioniere si impossessano di un galeone e si ribellano, abbandonandosi al libero amore. Ci sono poi film famosi da riscoprire (Anna di Lattuada), capolavori dimenticati di Luigi Comencini (Persiane chiuse e La tratta delle bianche), di Mario Monicelli (Le infedeli, feroce mélo-noir sulle ipocrisie del matrimonio borghese) o di Mario Soldati (La donna del fiume, progetto su misura per la Loren, girato tra le anguille di Comacchio e scritto da Moravia, Pasolini, Flaiano, Bassani). Ci sono registi conosciuti solo dai cinefili, come il grande Vittorio Cottafavi, autore di mélo "brechtiani", in cui smonta le regole del genere. O titoli davvero ignoti: come Noi cannibali di Antonio Leonviola, girato a colori tra le baracche di Civitavecchia, con piani-sequenza virtuosistici e una colonna sonora di Bruno Maderna a base di sirene.
Spesso considerato un periodo grigio secondo la storia politica, visti sotto la lente del cinema popolare gli anni del centrismo, del Pci stalinista e della Chiesa di Pio XII appaiono vivaci, pieni di spinte contraddittorie. La forza del cinema melodrammatico fu di individuare nella condizione femminile uno dei punti decisivi dell'epoca, e uno dei luoghi in cui più stava incubando "il nuovo". Curiosamente, dal boom economico in poi le donne saranno però sempre meno raccontate nel nostro cinema, e proprio man mano che si aprivano per loro spazi maggiori nella società. La stagione d'oro del mélo italiano durò pochi anni, fino a metà decennio: presto arrivarono i «poveri ma belli», le prime avvisaglie di commedia all'italiana, film che si rivolgevano a una nuova generazione di giovani. E il «demone del melodramma» (quello che, secondo il grande critico André Bazin, sotto sotto torna sempre nei registi italiani) si incarnerà in altre forme, soprattutto sul piccolo schermo, fino a oggi.
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