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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2011 alle ore 16:19.

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Tra i messaggi che preannunciano la pubblicazione di The Economist, ieri 18 agosto mi è pervenuto il seguente: «In questo numero, diamo uno sguardo al linguaggio come elemento culturale che può superare le differenze nelle società o essere male utilizzato per creare tensione e conflitto [… ed esaminiamo] come […] gli Americani stanno modificando la lingua inglese per mantenere la loro propria identità […]».

L'Italia ha la fortuna di avere una lingua che dal Medioevo si è evoluta come lingua colta, partorendo innumerevoli capolavori e soprattutto contribuendo a sviluppare tra le varie parti della Penisola un senso di identità, particolarmente nelle élites che nell'Ottocento si batterono per l'unificazione politica. Grazie all'istruzione impartita nelle scuole elementari, alla radio, alla televisione l'italiano è divenuto lingua di popolo, soppiantando o riducendo l'uso dei dialetti.

Oggi che l'Italia è divenuta paese di immigrazione la difesa dell'italiano si impone non solo come strumento di integrazione per i nuovi arrivati, ma anche come difesa della nostra identità. Inoltre, il sogno di un'Europa che si vorrebbe sempre più integrata non deve distruggere il plurilinguismo del nostro Continente. A che serve battersi, a mio avviso a torto, per il brevetto europeo in lingua italiana, se poi si attenta ancora una volta alla vita dell'Accademia della Crusca? Con l'istruzione secondaria e universitaria fortemente deficitarie in tema di conoscenze linguistiche e filologiche far scomparire il "faro della lingua" equivale a spegnere l'italianità del Paese.

(*) Economista, Presidente di Dexia Crediop

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