Il Sole 24 Ore
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Mosche di Belzebù

Gianfranco Ravasi


Il 19 settembre di cento anni fa nasceva in un villaggio della Cornovaglia inglese William Gerald Golding. Ne vorrei parlare da teologo, evitando perciò di invadere il campo coltivato dagli anglisti (per tutti penso a Claudio Gorlier e al saggio introduttivo del volume William Golding del 1987 nella collana di Utet riservata ai Premi Nobel letterari). Lo scrittore, infatti, ebbe una fede salda fin dall'adolescenza, nonostante l'agnosticismo e il radicalismo dei genitori, il padre socialista e la madre suffragetta, nonostante la moglie ardente comunista, nonostante la vita avventurosa per mare e la crisi morale da lui vissuta negli anni 1935-1940. Sempre a Gorlier, in un'intervista su «Tuttolibri» del 1982, confessava : «Non mi è difficile credere in Dio, importante è che lui creda in me», mentre ad Andrea Monti, in un'altra intervista per «Grazia», ribadiva : «Credo in Dio ma preferisco il diavolo».
Ecco è proprio in questa battuta che si può individuare l'asse teologico dello scrittore, un filo nero che avrebbe percorso tutta la sua opera, nella linea della spiritualità del protestantesimo anglosassone, fermamente convinto della profonda peccaminosità della creatura umana. Come vedremo, tutta la sua produzione letteraria ribalta l'ottimismo razionalista di un Rousseau, convinto che l'uomo sia naturaliter buono e che a depravarlo sia la società. Per Golding le convenzioni sociali ricoprono di un manto il nodo di vipere che si aggroviglia nel cuore umano. Anche se non li cita e forse non li legge, sono da un lato Lutero col suo De servo arbitrio e Pascal, d'altro lato, con la sua certezza nel rilievo decisivo del peccato originale a spiegare esaustivamente l'essere umano, per cui «tutti gli uomini si odiano per natura l'un l'altro» (Pensieri 451, edizione Brunschvicg).
È appunto l'odio, scintilla celata nell'anima, a esplodere nel romanzo che nel 1954 rese celebre Golding coi 14 milioni di copie vendute nella sola edizione inglese, avviandolo al Nobel del 1983. Si tratta del Signore delle mosche, un titolo suggerito dal poeta Eliot che allora era a capo dell'editrice Britannica Faber & Faber. L'espressione è biblica e appare a romanzo inoltrato allorché, quando la violenza sta già celebrando i suoi trionfi, la testa di una scrofa-madre crudelmente uccisa viene infissa su un bastone come «Signore delle mosche» dai ragazzi protagonisti del libro che si accaniscono su di essa. Chi la contempla con quei «denti bianchi, gli occhi velati, il sangue... ne resta affascinato, riconoscendo qualcosa di antico, di inevitabile». Per decifrare questo simbolo fondamentale bisogna risalire alla parola «Beelzebul» usata per insultare Gesù da parte dei Farisei: «Costui scaccia i demoni per mezzo di Beelzebul, principe dei demoni!» (Matteo 12,24).
Il nome – che significa letteralmente «Baal (Signore) il principe» – era uno degli appellativi di Baal, la divinità degli indigeni della Terra santa, i Cananei, un dio della fecondità, "principe" appunto di quel pantheon, considerato idolatrico e detestato dalla Bibbia. Proprio per esprimere questo disprezzo e la relativa censura, l'Antico Testamento aveva deformato il nome nell'assonante «Beelzebub» che significa appunto «Signore (Baal) delle mosche», esseri spregevoli e impuri (2 Re 1, 2-3). Piantato sul terreno dell'isola tropicale in cui i ragazzi sopravvissuti a un incidente aereo si dividono tra cacciatori e custodi del fuoco c'è, dunque, il vessillo di Satana, e ben presto l'odio tra i due capi, Ralph e Jack, si trasformerà in fame di violenza e di sangue. Altro che bontà e innocenza della natura umana: già nell'uomo piccolo si condensa la cupa volontà di compiere il male, così come nel mondo che lo circonda si scatena un conflitto mondiale. Altro che fiducia nella razionalità, nel progresso, nella tecnologia: sono solo feticci mitici che cedono il passo al Signore delle mosche, il vero sovrano della storia.
Quest'onda pessimistica continuerà a battere sulle trame degli altri romanzi di Golding, a partire da Pincher Martin (1956), tradotto in italiano con il titolo La folgore nera, ove un altro superstite di un naufragio vede infrangersi i sogni di una vita tutta segnata dalla razionalità e dall'ottimismo. Anche il decano Jocelin, che nella Guglia (1964) vuole erigere una torre di Babele cristiana nella sua cattedrale, rivela che a dominarlo è l'hybris del potere e della gloria. L'emblema dell'umanità è in un altro ragazzo, Matty, del romanzo L'oscuro visibile (1979) che nel suo volto sfigurato da un bombardamento reca il ritratto di ogni creatura devastata dall'odio, mentre vanamente i farisei guardano dall'altra parte. Il filo nero, a cui accennavamo, ascende fino alle origini stesse della ominizzazione, come accade negli Eredi (1955) ove persino gli uomini di Neanderthal vedono il loro Eden sconvolto dall'irrompere di Tuomi, l'uomo nuovo, aggressivo e prepotente, maestro di potere e di prevaricazione come il Lamek biblico che «uccideva una persona per una sua scalfittura e un ragazzo per un suo livido» (Genesi 4,23).
Senza voler inseguire tutta la produzione letteraria di Golding fino alla sua morte, avvenuta nel 1993, la sua spietata analisi del peccato radicale che infetta l'umanità ha un altro picco nei Riti di passaggio (1980) che introducono quel Talbot, giovane aristocratico ambizioso, superficiale e scettico, in viaggio per l'Australia, che sarà protagonista di un paio di altri romanzi successivi. Su quella nave che avanza lentamente verso la remota terra australiana si consumano orribili riti di iniziazione al male, compreso persino uno stupro omosessuale nei confronti dell'unica persona che crede nel bene e nel futuro dell'umanità, il reverendo Colley, che non riuscirà ovviamente a sopravvivere. E alla fine il simbolo estremo – a nostro avviso – della torva visione antropologica di Golding è in uno dei libri derivati dai Riti di passaggio, quello intitolato Calma di vento (1987). La nave che sta procedendo verso l'Australia viene bloccata da una bonaccia nel Pacifico e le alghe la avvolgono in una stretta melmosa insuperabile.
In quella mucillagine c'è tutta la sottile e segreta potenza del male che asfissia la mente, affoga il cuore e paralizza le mani del l'umanità. Ciò che manca sistematicamente in Golding è, quindi, la salvezza. Anche san Paolo era convinto che l'uomo si trovasse sulle sabbie mobili della sarx e dell'hamartía, ossia della sua carnalità peccatrice, votato a sprofondare e incapace da solo di sollevarsi con le sue forze. Ma nella sua visione era capitale la cháris, la grazia, ossia la mano che Dio rivolge all'umanità perché si lasci, attraverso la pístis, la fede-fiducia, attrarre verso l'alto, la luce, la redenzione. Lo scrittore inglese è fermo solo al primo livello, quello di una spiritualità negativa e cupa, nella quale – come egli appunto confessava – è il diavolo a prevalere su Dio. Non basta, certo, l'ufficiale, che diventa il posticcio salvatore finale di Ralph dall'odio omicida di Jack, a cancellare la livida atmosfera del Signore delle mosche. L'unico bagliore che Golding lasciava aperto era, al massimo, nell'ironia: «Sono costretto a recitare Amleto ma vorrei fare il buffone, vi farei morire tutti dal ridere». Ma subito dopo si ritirava sarcasticamente nel suo ruolo di profeta isolato, solitario e apocalittico: «Scrivo poesie in latino per non correre il rischio di diventare un poeta alla moda».
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