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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2011 alle ore 20:02.
L'ultima modifica è del 24 settembre 2011 alle ore 20:02.

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Leonardo Sciascia, 1978, a Recalmuto (foto inedita di Ferdinando Scianna)Leonardo Sciascia, 1978, a Recalmuto (foto inedita di Ferdinando Scianna)

In questa favola, la numero uno, il senso è chiaro, la morale è inalterabile, l'acqua torbida resterà torbida.

Sciascia non patì restrizioni espressive a causa del fascismo: scrisse dopo, e scelse liberamente la propria reticenza. Favole della dittatura ha due epigrafi: la prima è tratta da Animal Farm di Orwell, la seconda viene da un altro libro con titolo animalistico, Parliamo dell'elefante di Leo Longanesi: «Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall'automobile?».

A Sciascia non sta a cuore la dialettica storica ma la restituzione di un clima, secondo la lezione del primo maestro che poté osservare da vicino, Vitaliano Brancati, che insegnò a Caltanissetta nell'istituto magistrale da lui frequentato come studente. Il primo dei molti interventi che Sciascia dedicherà a Brancati s'intitola Brancati e la dittatura ed esce il 22 dicembre 1948 sul quotidiano «Sicilia del Popolo». Brancati e la dittatura, non «Brancati e il fascismo»: è questo il punto decisivo. Il giovane Sciascia ammira in Brancati la lontananza da ogni ipoteca totalitaria: nei suoi scritti del dopoguerra il fascismo, il nazismo e il comunismo sovietico sono sullo stesso piano. Ecco perché sceglierà per il suo primo libro un titolo come Favole della dittatura, unico elemento dell'opera che conceda al lettore una chiave interpretativa, dato che la parola «dittatura» non compare in nessuno dei testi.

Ed ecco anche la sorpresa che riserva uno spoglio di «Sicilia del Popolo», dove tre mesi prima di Brancati e la dittatura, il 21 settembre, comparve una colonnina con sei delle favole di Sciascia. Il titolo di questa prima e unica anticipazione del suo esordio è Favole per il dittatore: «per il dittatore», non «della dittatura». La prospettiva cambia: nel 1950, Favole della dittatura allude al ventennio fascista senza margine di equivoco; «la dittatura» è un'antonomasia, è Benito Mussolini in persona. Succede l'inverso con il destinatario innominato di favole concepite «per il dittatore» quando ormai quel dittatore non c'è più; adesso ‐ nel settembre 1948, cioè poco dopo le elezioni politiche stravinte dalla Democrazia cristiana e in piena guerra fredda ‐ il dittatore, benché preceduto dall'articolo determinativo, è un personaggio in cerca di un nome.

Sottigliezze? Non proprio: il quotidiano «Sicilia del Popolo» che ospita in terza pagina Favole per il dittatore è l'edizione palermitana dell'organo democristiano «Il Popolo». Sciascia, che democristiano non è, comincia proprio con le Favole una saltuaria collaborazione alla testata. Sul giornale del partito cattolico e in quella stagione civile, «il dittatore» si svincola dalla figura di Mussolini e persino dall'articolo determinativo: il dittatore rinvia al passato prossimo dell'Italia, certo, ma più ancora al presente e all'avvenire del mondo; è un tiranno vivente che incombe da un Paese misterioso, e sono le sei brevi prose di Sciascia a delinearne il profilo.

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