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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2011 alle ore 20:02.
L'ultima modifica è del 24 settembre 2011 alle ore 20:02.

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Leonardo Sciascia, 1978, a Recalmuto (foto inedita di Ferdinando Scianna)Leonardo Sciascia, 1978, a Recalmuto (foto inedita di Ferdinando Scianna)

Tutto suppergiù ragionevole: eppure l'allusione a Stalin, o ad altro tiranno attivo nel '48, è un fatto contingente: stiamo leggendo uno scrittore e non riscrivendo la politica italiana del dopoguerra. Ora, lo scrittore è Sciascia e le sue favole sono «per il dittatore»: cioè, è il dittatore ad averle ispirate, ma soprattutto è con lui che parlano; gli si rivolgono instaurando un legame diretto.

Ecco le prime due che si leggono in «Sicilia del Popolo»:
«Da anni il cane, quando si acculava pieno di noia ai piedi del padrone, amava la fresca sensazione dell'odore di trementina che le scarpe gli davano: il padrone usando sempre una buona vernice alla trementina. Così; lentamente, il pensiero dei calci ricevuti e da ricevere si fuse in quell'odore gradevole, acquistò una certa voluttà. La pedata fu soltanto un odore. Ma un giorno il padrone usò altra vernice, di un odore più torbido, come di petrolio e di sego. Da allora le pedate riempirono il cane di disgusto».

E poi: «L'asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: gli volevo bene, ogni sua bastonata mi creava una rima».

Non è satira, questa: è ritorsione, è minaccia velata. Sciascia è un giovane uomo pubblico che conosce i meccanismi dell'obbedienza. «So che cosa pensi di me» dice il lupo all'agnello; e queste fiabe dicono al dittatore «Sappi che io so che tu sai: quindi io ne so di più». Per un attimo, giusto al principio del suo percorso, Leonardo Sciascia scopre le sue carte: in queste ventisette favole è un attore che finge di essere un testimone. È per questo che le Favole della dittatura, o Favole per il dittatore, sono l'addio alla giovinezza e il rito di fondazione di un nuovo scrittore. A differenza di Calvino, Sciascia non ha bisogno di superare lo scetticismo, che al contrario è la forma della sua passione e sarà la bussola di ogni sua indagine. Sciascia deve e vuole tenersi sulla linea sempre malcerta che corre fra intransigenza e complicità: con ogni interlocutore, buono o cattivo che sia.

Favole per il dittatore: sappiamo da tempo che Il giorno della civetta è una storia che parla ai mafiosi così come parla dei mafiosi, che Il contesto e Todo modo sono due parabole che parlano rispettivamente ai comunisti e ai democristiani nello stesso tempo che parlano dei comunisti e dei democristiani; inchiodandoli alle loro immagini.

Sciascia ha praticato per tutta la vita questo antagonismo connivente, la cui contropartita consisterà nel fatto che la sua mente è indotta a conformarsi su quella dell'avversario di turno: da cui, nel Giorno della civetta, la stima per il capomafia don Mariano Arena che tanto spesso gli è stata rimproverata e che è il suo limite fatale. Ma Sciascia sa tutto fin dal principio, e per di più sa di saperlo. La prima epigrafe di Favole della dittatura, quella di Orwell, è chiarissima nel segnalare l'inciampo contro cui rischierà di urtare, dal 1950 in poi, ogni suo pensiero, ogni sua azione, ogni sua favola: «Non c'era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due».

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