Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2011 alle ore 15:44.

My24

Ci siamo mai accorti che questa si può chiamare solo in un modo, schizofrenia? Sembrano due scuole e mondi diversi, invece dovrebbero essere due percorsi di cui uno è la continuazione dell'altro. Da un lato una vera e propria moda, ormai troppo invecchiata, che, pretendendo di rappresentare un metodo scientifico d'analisi dei testi, ha prevaricato per fama e fortuna altri approcci critici: come se sulla narrativa non si muovesse foglia che Propp (e Genette e i formalisti russi) non voglia e non si potesse invece avere un approccio rigoroso (al testo, non alla biografia e al contesto) che non passi per fabula, intreccio e via classificando. Dall'altro un guscio oramai vuoto, privo del contenuto culturale ed etico che aveva per De Sanctis e Croce: oggi l'impostazione storicistica si riduce quasi solo più a un ordine cronologico di presentazione degli autori (così nessuno si confonde), a un elenco di alcuni autori che "s'hanno da fare", senza saper più bene perché.

Forse è necessario discutere a fondo e collettivamente su che cosa debba essere oggi l'insegnamento della letteratura: nella scuola, il dibattito al riguardo latita; in compenso facciamo tanti corsi (per carità, importanti, ma una volta e poi basta!) su dislessia, sicurezza, didattiche fichissime che finalmente relegheranno in soffitta l'insegnamento "tradizionale" (sic). Aggiungo che c'è chi vuole sfuggire dalla gabbia di questi scheletri e residuati didattici, ma a volte improvvisa, anche assai male. Terrorizzato dal rischio di dare da leggere a gente che, si sa, non legge più, un romanzo ammorbante e noiosissimo (si dice "essere più realisti del re") si affida a un rinnovamento discutibile: via dalle letture del biennio Manzoni, Svevo, Pirandello, Flaubert, Moravia e dentro Valerio Massimo Manfredi, Ken Follet, John Grisham.

A proposito, se a scuola facciamo corsi di aggiornamento sugli argomenti collaterali se non estranei alla didattica che elencavo sopra, e solo quelli, è anche perché è assai difficile trovare un corso di aggiornamento di letteratura o filosofia. Dove sono i critici letterari, i professori universitari? Perché non entrano nelle scuole e provano a frizionare un po' le nostre menti stanche di ripetere schemi prefissati con qualche nuovo spunto? Forse anche le loro menti sono ottuse dalla ripetizione di parole già dette? La scuola e l'università non dovrebbero essere due mondi separati, ma oggi di fatto lo sono. L'insegnante di scuola superiore non ha praticamente carriera e rischia di "sedersi" presto, se non è mosso da un dinamismo del tutto autogeno: fornirgli stimoli eterodiretti lo renderebbe non solo più aggiornato ma anche più appassionato e mobile.

Forse poi la creazione di una positiva collaborazione permetterebbe anche di capire meglio cosa succeda nel passaggio dei nostri studenti dall'ultimo anno del liceo all'università: i ragazzi che oggi si iscrivono alle facoltà umanistiche non hanno, quantitativamente parlando, le stesse conoscenze che avevano i loro fratelli maggiori, e l'università deve capirlo; per cui non è più possibile auspicare, come mi capitò di sentire durante i miei studi, che gli studenti italiani "leggano per un esame tutti i canti della Commedia: Dante è il nostro più grande poeta!" (vero, peraltro, ma a Giotto si dedicano poche ore, a Bach nessuna, e chi legge più già al liceo Guerra e pace?). Viceversa, la scuola deve ancorarsi anche oggi a ciò che di più alto l'università produce, per non perdersi in educazioni civiche, stradali, sessuali, ecologiche, alimentari.

Ma non ci sono solo i licei. In un certo senso se in Italia abbiamo un sistema scolastico secondario bipartito e ghettizzante, con i licei da una parte e i tecnici e professionali dall'altra, dove l'umanesimo ha spazi ridotti, è proprio anche per "colpa" della cultura aristocratica e spocchiosetta che nei ginnasi fioriva. È possibile pensare che si possa salvaguardare quanto di buono hanno prodotto e possono ancora produrre i licei, senza per questo passare sopra la questione serissima dell'insegnamento delle materie umanistiche in scuole a vocazione tecnica e professionale? Di fronte a competenze linguistiche ridotte forse sarebbe il caso di lasciar da parte la pretesa che si legga e comprenda il Cinque maggio, con la sua bolsaggine stilistica ottocentesca (giudizio non mio, ma di Gadda), per leggere magari Penna, Pavese, Saba. Non si può arrivare a far capire che cosa sia la poesia (in fondo è poi quello l'unico obiettivo che sarebbe fallimento definitivo mancare), leggendo questi autori? Chissà che magari gli studenti "volenterosi" ma con "lacune incolmabili" che vengono da queste scuole, di cui il professor Giunta scrive con parole che celano un po' di simpatia e un po' di compassione, non possano trarne beneficio, se non per le nozioni, al cui deficit è forse più facile rimediare, soprattutto per le competenze linguistiche, che avranno magari rafforzato e sviluppato?

Gli studenti arrivano all'università con un bagaglio di conoscenze sempre più ristretto. Ma all'università che cosa succede? La mia esperienza, ma anche quella di molti altri miei coetanei (trentenni) con cui mi sono confrontato, è che la scuola vera, quella impegnativa e formativa, è stata il liceo, non l'università. I miei professori di liceo mi chiedevano spesso di ragionare su ciò che avevo appreso, depistandomi con domande alle quali potevo rispondere sì grazie alle pagine studiate, ma non riferendone tout court il contenuto, bensì sfruttandolo per risolvere un problema affine ma non identico. Cosa mi è successo invece all'università? Ho studiato molte più pagine, alcune straordinarie, e ho incontrato (pochissimi...) professori che mi hanno cambiato la vita; ma poi gli esami si riducevano spesso a uno scambio di domande e risposte sui meri contenuti: domande facili, fin troppo, per rispondere alla quali non serviva lo stesso sforzo che facevo al liceo. La didattica forse non è un problema così sentito nella aule universitarie.

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi