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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 10:00.

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Illustrazione di Franco MatticchioIllustrazione di Franco Matticchio

Il primo rischio per il lettore, il più originario e fra i più gravi, è il rischio di diventare, di voler diventare, scrittore; oppure, anche peggio, critico. Non mi metterò a parlare dei qui presenti. Mi limito a ricordare una notevole ovvietà: i libri sono contagiosi e per subire il contagio bisogna leggerli con passione e, diciamo pure, con una ricettiva ingenuità. Senza essere Don Chisciotte o Emma Bovary, traviati dall'eroismo cavalleresco e dall'amore romantico, ogni lettore appassionato (non solo di romanzi) fa entrare le sue letture predilette nella costruzione della propria identità. La lettura permette di stabilire delle vie di comunicazione fra l'io profondo, con il suo caos, e l'io sociale, che deve fronteggiare le regole del mondo. Tra le letture più rischiose ci sono quelle il cui contagio suggerisce, impone di cambiare vita, di fuggire dal mondo o di trasformare radicalmente la società. Chi è stato, chi è cristiano o marxista sa bene di che parlo: il Nuovo Testamento e le opere di Marx e Engels non perdonano chi resta quello che era dopo averle lette. Non sono solo libri, sono tribunali che giudicano ognuno e tutti stabilendo leggi e mete metafisiche, storiche, morali, utopiche. L'accostamento blasfemo, un po' ovvio e comunque ossimorico, fra gli evangelisti e Marx fa capire che si danno casi di analogia per contrasto fra letture di venti secoli fa e letture del secolo scorso. L'attribuzione di valore che una comunità e una società compiono nella scelta di certi testi, nel modo di leggerli e di rispondere alla lettura, fa di alcune opere qualcosa di intoccabile, sottratto alla critica e alla discussione. Il fatto stesso di poter diventare "marxisti" in seguito alla lettura di Marx indica che l'autore e la sua opera diventano una fonte di certezze indiscutibili, se non di veri e propri dogmi imposti e difesi con il ricatto, le minacce, la coercizione. Nel caso di questo tipo di letture, il rischio è che l'assenso o il dissenso, l'accettazione o il rifiuto espongono il lettore a condanne e rappresaglie sia intellettuali che sociali e politiche. Tutto questo è avvenuto.

Senza arrivare ai casi limite, anche le nostre moderne culture secolarizzate, desacralizzate e dissacranti hanno attribuito a una serie di libri un valore che, almeno per un periodo di tempo, li consacra. Discuterli, criticarli, rifiutarli, diminuirne e circoscriverne il valore è sentito allora come una sfida alla "communis opinio", alla razionalità, all'intelligenza, alla modernità, al progresso, alla correttezza morale o politica. Più o meno esplicitamente, ogni epoca ha un suo canone. A volte, più canoni o sottocanoni alternativi. Nel Novecento ci sono stati un canone Croce e un canone Contini, un canone Lukács, un canone Eliot, un canone Breton. Sono almeno parzialmente canonici e canonizzanti tutti i critici più autorevoli, ognuno con il suo criterio di scelta: Leo Spitzer (deviazione dalla norma linguistica), Erich Auerbach (divisione o mescolanza degli stili nella rappresentazione della realtà), Viktor Šklovskij (modi dello straniamento), Michail Bachtin (polifonia e dialogismo), Walter Benjamin (allegoria e utopia) ecc.

Diventare scrittori o critici dopo aver letto uno o più autori vuol dire, nel primo caso imitare, sfidare, riprendere, cercare di superare un modello o decidere di abbattere un idolo; nel secondo caso, trasformarsi da lettore in superlettore, lettore al quadrato, lettore che scrive su ciò che ha letto, che intensifica l'atto di leggere elaborando metodi per leggere meglio e per ricavare il massimo profitto scientifico, morale, ideologico dalla lettura. Il critico, in quanto lettore speciale, iperlettore, lettore creativo, lettore-studioso e lettore-giudice, lettore-pedagogo, lettore-filosofo, può tendere a mettersi al servizio del testo (il filologo in senso stretto e in senso lato); mettere il testo al servizio della propria autobiografia più o meno esplicita (il libero commentatore e interprete che attualizza, "presentifica" il testo per illuminare la propria situazione); o mettere i testi al servizio di una qualche teoria o scienza della letteratura. In altri termini, si tratta di modalità di lettura che nell'ultimo mezzo secolo si sono alternate entrando in conflitto e in polemica.

Il progetto strutturalistico e semiologico, integrando metodi di analisi testuale e teoria generale della letteratura, ha prodotto soprattutto un rischio: quello di evitare alla lettura i suoi rischi, mettendo il lettore al riparo, aldilà o aldiqua delle sue reazioni soggettive. I libri, gli autori, le opere erano considerati solo in quanto oggetti testuali da analizzare. Le varianti empiriche, circostanziali, soggettive dell'atto di leggere venivano rimosse. Leggere era considerato un atto culturalmente degno e corretto solo se le procedure di analisi erano stabilite a priori come deontologicamente degne e scientificamente corrette. Il professionista della lettura si presentava come il superamento, la trascendenza del lettore empirico. L'atto di leggere veniva bonificato, disinfettato dai germi dell'occasionalità e dalle interferenze della soggettività non professionistica del lettore. La scienza (una scientificità per lo più malintesa, derivata dal modello delle scienze esatte) metteva al bando psicologia, etica, politica e riflessione filosofica. Il modello strutturalistico-semiologico diffuse in tono trionfalistico e progressivo il messaggio secondo cui la grande tradizione della critica moderna, impura, moralistica, impressionistica, ideologica e prescientifica, era ormai superata. Sembrò una definitiva interruzione di continuità con il passato recente. Si usava la Poetica di Aristotele e la trattatistica retorica come antidoto contro i classici della critica dal Settecento a metà Novecento. Metodi di analisi e teoria della letteratura sembravano rendere inutilizzabile, in blocco, una vicenda culturale che da Schiller ad Adorno, da Coleridge e Baudelaire fino a Eliot, Leavis, Wilson, Sartre, da De Sanctis a Gramsci e Debenedetti, nella quale la letteratura era stata letta in rapporto alla società e ai valori che potevano orientare la critica sociale. Nonostante il momentaneo trionfalismo, questa parentesi non durò molto. Il modello analitico-teorico e neoretorico, venne messo in crisi da quello ermeneutico e dalla comparsa di una teoria della ricezione. Anche l'ermeneutica, come la retorica, non è una specialità moderna, ha le sue radici in Platone, Aristotele e poi soprattutto, come è noto, nell'interpretazione medievale dei diversi livelli di senso delle sacre scritture. Nel Novecento l'idea di ermeneutica, da Dilthey e Heidegger a Gadamer e Ricoeur, si chiarisce come rapporto dialogico con quell' "interlocutore muto" che è il testo, a partire da un lettore e interprete la cui esistenza o Dasein stabilisce le condizioni a priori dell'interrogazione e comprensione del testo. Il testo non è più, perciò, un dato, è un rapporto fra i poli di un processo che ha sull'altro versante il lettore. In un teorico della ricezione come Wolfang Iser (L'atto della lettura) ciò che più importa è il modo in cui si realizza la comprensione da parte del lettore, dato che il testo sprigiona significato solo nella pratica di lettura, che naturalmente non è sempre uguale a se stessa. Le novità introdotte dall'ermeneutica e dalla teoria della ricezione sembrano delle ovvietà: ma spesso così vanno le cose quando si teorizza. Che cos'è l'ermeneutica se non la versione filosofica di quanto la critica letteraria aveva sempre fatto da quando esiste? E che cos'è la critica letteraria se non critica orientata nel presente e dalle esigenze del presente, cioè critica coinvolta, globalmente responsabile e, secondo la nostra terminologia un po' bellica, "militante"? È in questo senso che la critica va distinta dallo studio letterario di tipo accademico e va connessa con la critica della cultura, e in ultima istanza con la critica della società.

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