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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 10:00.

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Illustrazione di Franco MatticchioIllustrazione di Franco Matticchio

Su quest'ultimo punto può soccorrere T. S. Eliot con il suo pratico buon senso, quando si chiese quali sono "le frontiere della critica": quando, cioè, la critica letteraria smette di essere "letteraria" (usando la letteratura per capire altre cose) e quando, all'altro estremo, smette di essere "critica" (cioè giudicante). Mentre nell'ermeneutica con la nozione e il termine di Dasein si indica, si nomina il presupposto della situazione e della prassi interpretativa, nella critica letteraria si procede compromettendo ogni presupposto circostanziale con i contenuti specifici che intervengono nell'esperienza di lettura. I rischi della lettura vengono da un processo interpretativo in corso; non vengono tematizzati filosoficamente, ma dispiegati nella dialettica discorsiva, saggistica di un racconto critico. La critica non si limita al testo con le sue strutture, né al lettore con le sue reazioni, né alle intenzioni dell'autore. Sarebbe molto difficile, fra i classici della critica moderna, trovarne uno che si fermi al testo, o alle proprie reazioni di lettore, o alle sole intenzioni dell'autore. La critica letteraria è un'estetica in atto, non in teoria, la sola estetica empirica e pluralistica e forse (io almeno lo credo) la sola che conti. I tentativi di definire la letteratura in generale, cercando formule valide per l'intero corso della storia e per tutti i generi, non hanno dato risultati durevoli; anche quando, anzi soprattutto quando, certe teorie e definizioni hanno avuto successo, spingendo la critica all'uso di tautologie rassicuranti: la poesia è intuizione lirica, la poesia c'è quando domina la funzione poetica del linguaggio, l'essenza della letteratura è la letterarietà… Questo formulario non incrementa ma impoverisce e paralizza l'esercizio della critica. E in certe categorie professionali di specialisti fa della lettura un atto preordinato, preconcepito, metodologicamente corretto, praticabile e replicabile senza rischi.

Come sappiamo tutti e come hanno notato anche gli storici della lettura, il primo, uno dei primi lettori "senza metodo" è stato non per caso Montaigne, l'inventore del saggio moderno, informale o personale. Prima di lui, nel Rinascimento, i lettori colti leggevano compilando "quaderni di luoghi comuni" nei quali raccoglievano citazioni, osservazioni, passi letti. Si trattava di strumenti che sostituivano la mnemotecnica. Montaigne si rifiuta di copiare e compilare, "non annota i libri che legge per trarne estratti e citazioni (…) nella redazione degli Essays non utilizza repertori di luoghi comuni, ma compone liberamente, senza attingere a ricordi di lettura o senza interrompere la concatenazione dei pensieri con riferimenti libreschi" (Guglielmo Cavallo e Roger Chartier).

Certo Montaigne non era un critico letterario. Ma i suoi saggi mostrano un uomo che riflette su di sé e sul genere umano leggendo e avendo letto. Come lettore non studioso di testi, rappresenta un momento ineliminabile dell'attività critica. Per essere un iperlettore, il critico deve restare semplice lettore, lettore senza difese, senza pinze, forbici e bisturi, lettore ricettivo che accetta i rischi della lettura, sospende l'incredulità e crede, almeno finché legge, a quello che legge. Il lettore di libri può tenere un diario di letture e può succedere che scriva come Henry Miller un'autobiografia, I libri nella mia vita che, dice, "tratta di libri in quanto esperienza vitale": e le sue conclusioni sono che "bisognerebbe leggere sempre di meno e non sempre di più" e che pur non avendo letto come uno studioso, sentii di aver letto "almeno cento volte di più di quanto avrei dovuto leggere per il mio bene". Ma l'essenziale per un tipo come Henry Miller era, sì, scrivere, ma soprattutto vivere. Credeva fermamente (e anch'io lo credo) che gli illetterati "non sono certo i meno intelligenti tra noi". Ma intelligenti, o come dice Miller, "rivoluzionari - e cioè ispirati e ispiratori" devono essere i libri. Perché un rischio della lettura, il rischio in realtà più frequente, è leggere quel tipo di libri che sarebbe stato meglio non leggere, o che sarebbe stato meglio che non fossero stati pubblicati e scritti. Il libro in sé non è un valore. Lo è solo se vale. E nel caso presente di sovrapproduzione libraria i peggiori nemici dei libri che vale leggere sono i troppi libri che li sommergono e da cui cerchiamo a fatica di difenderci.

Uno dei critici più interessati ai vari rischi della lettura è stato George Steiner. "Leggere bene" ha scritto "significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo (…) chi ha letto la Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi allo specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell'unico senso che conti realmente". Per Steiner il "leggere bene" non è un fatto tecnico neppure nel senso dei metodi di analisi e interpretazione. È una qualità dell'esperienza. Nel saggio "Una lettura ben fatta" (in Nessuna passione spenta) Steiner mostra una certa nostalgia per i rituali della lettura e per il libro come oggetto di culto e strumento di autoformazione umanistica: "Leggere bene significa rispondere al testo, implica una responsabilità che sia anche risposta, reazione". Trascurare i refusi senza correggerli è già un peccato di omissione e di disattenzione: "una bestemmia contro lo spirito e contro la lettera". È da questa appassionata etica della lettura che nascono la filologia e la critica.

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