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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2011 alle ore 08:15.

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Per tanti siciliani del Novecento, la decisione di lasciare la Sicilia è stata anche un modo per riuscire a scriverne da lontano: e per costruire dal Continente (o da altri continenti) una comunità immaginata che rimediasse ai limiti della comunità originaria. Né tutto sembra cambiato in questi anni Duemila. Siano mossi o non lo siano dal senso di colpa di chi fin da giovane ha fatto le valigie, certi siciliani della diaspora giornalistica e letteraria - si pensi al Giampiero Mughini della Collezione, o al Pietrangelo Buttafuoco de Il lupo e la luna - danno ancora oggi l'impressione di scrivere per restituirsi alla Sicilia almeno come biblioteca. E perciò i loro libri sono talmente colti, sono libri sui libri. Perché quand'anche gli autori siano partiti da decenni, è alla comunità-biblioteca della "sicilitudine" che essi si vogliono riconsegnare.
In tal senso, perfino un libro globale com'è quello di Gianni Riotta va letto come libro locale, l'omaggio di un figlio alla sua regionale madrepatria. Ma anche va recensito con un caveat, con l'indicazione di una cosa che a Riotta resta forse da imparare: il paradosso del siciliano emigrato che l'esperienza di ogni latitudine e ogni longitudine, le mille partenze e i mille arrivi, i diecimila incontri, insomma le occasioni e gli allori, la frequentazione del mondo e il successo nella vita, non bastano ad affrancare né dal richiamo delle origini, né dalla solitudine dell'uomo-isola.
Sì, c'è qualcosa di dolorosamente solipsistico nella condizione dei siciliani anche più riusciti e trionfanti fuor di Sicilia. C'è l'insulare solitudine dei numeri primi.
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Gianni Riotta, Le cose che ho imparato. Storie, incontri ed esperienze che mi hanno insegnato a vivere, Mondadori, Milano, pagg. 304, € 18,00

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