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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2012 alle ore 17:10.

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Giammarco era un ragazzino molto sveglio: dette persino vita a una trattativa e riuscì a portare a sette le due ore inizialmente fissate per lo sgombero. Dopo un mese e mezzo uscii (o meglio, dovetti uscire) in strada per la prima volta e detti il mio contributo a quella specie di improvviso sfratto, portando fuori dalla casa tutto quanto era possibile. La signora Anna Pia mi disse che la sua famiglia sarebbe stata alla meglio ospitata nella casa di un compagno di scuola di Giammarco e che non poteva certo chiedere a qualcuno di nascondere in casa un disertore. Mi dette il nome di un contadino che abitava poco lontano da Perugia. Uno dei ragazzi della famiglia era il fidanzato della domestica di casa Schiavelli. Fui immediatamente accolto senza domande e senza problemi. Aiutavo a falciare l'erba e a cambiare la lettiera delle vacche, ma capitava sempre più spesso che dovessimo interrompere il lavoro per il sibilo delle cannonate in arrivo.

Rimasi presso quella famiglia fino al giorno della liberazione di Perugia (il 20 giugno). Ma a Perugia dovetti ancora rimanere perché Città di Castello fu liberata il 22 di luglio. Per mangiare e dormire (fui per qualche settimana all'Albergo Fortuna), vendevo ogni tanto, a un orefice del centro, un pezzetto di una catenina di maglia d'oro che mia madre mi aveva affidato e che avevo portato, legata alla vita, per quasi tre mesi. Mi è accaduto spesso, ricordando quegli anni, di pensare che avrei potuto orientarmi meglio nel mondo di allora e impiegare quei giorni in imprese più rischiose e storicamente più degne di considerazione. Conosco persone che hanno combattuto una guerra e continuano a parlarne per tutta la vita. Parlano solo di quello e rievocano a ogni occasione. Altri ne tacciono o ne parlano solo dopo una più o meno massiccia dose di insistenza o, addirittura, rifiutano di parlarne. Sono quelli a cui (com'è detto nell'Enrico IV di Shakespeare) «la mano terrea e fredda della morte pesa sulla lingua».

Non avendo combattuto, sugli anni della guerra, a differenza di molti miei coetanei e amici, non ho nulla di straordinario o di eroico da raccontare. Di eroico c'è stato, ai miei occhi, la facilità con la quale, come moltissimi altri, ricevetti aiuto da sconosciuti. La famiglia Bulletti che mi accolse in casa, nei giorni del passaggio del fronte, sapeva di me solo che ero persona nota a una ragazza che faceva l'amore con uno della famiglia. A pensarci, non è davvero una grande raccomandazione.

A distanza di trent'anni da quei giorni, una prima volta, poi, a distanza di sessant'anni, per la seconda volta, ho incontrato Giammarco Cappuccio che vive a Firenze ed è, attualmente, un giudice di Cassazione. Tutte e due le volte, come è ovvio, abbiamo finito per rievocare quei giorni lontani. Io non so se lui creda nell'esistenza reale di un luogo nel quale sia realizzata quella che Kant chiamava «l'unione di virtù e felicità» e nel quale non vadano perdute le azioni buone compiute sulla Terra.

Indipendentemente dalle nostre convinzioni filosofiche o religiose, il bisogno di credere che la bestiale ferocia verrà punita e la generosità e l'altruismo premiati è fortissimo in ciascuno di noi. Anche coloro che pensano che questo non accadrà, vorrebbero invece che accadesse. Anche chi pensa che la presenza umana nell'universo sia una sorta di fioritura di breve periodo destinata a essere travolta dal fiume del tempo, sente che questo pensiero uccide una radicata speranza e contrasta con essa. Possiamo pensare che non è affatto detto che sia vero ciò che speriamo e falso ciò che si oppone alle nostre speranze e, tuttavia, pur fermamente credendolo, sentiamo (come sta scritto proprio ne Il caso e la necessità di Jacques Monod) che questo è, per ciascuno, «fonte di angoscia».

Nel nostro ultimo incontro, parlando con Giammarco, gli ho detto che eravamo ormai rimasti solo noi due a ricordare quanto a entrambi era avvenuto più di mezzo secolo fa, che io avevo più di ottant'anni e che già per i nostri figli (per non parlare dei nipoti) quel pezzo o frammento delle nostre vite era come non fosse mai stato vissuto da nessuno. Gli dissi anche che questo, in qualche modo, mi procurava una sottile angoscia e che avrei cercato di trasmettere ad altri il ricordo di quei giorni. In realtà, per quanto mi riguarda, ciò che vorrei non venisse travolto dal fiume del tempo e che mi ha spinto a scrivere queste pagine non è quello che mi è accaduto nel corso degli anni, dei mesi, dei giorni o delle ore di quel pezzo ormai lontano della mia vita, non è ciò di cui ho parlato finora, ma è ciò che avvenne in poco più di un minuto.

Quando, quel pomeriggio, entrai nella casa del dottor Schiavelli, la signora Anna Pia si rese immediatamente conto delle mie condizioni e della mia situazione e molto dimessamente, con il tono gentile che normalmente si usa per invitare qualcuno a pranzo, mi disse: «Io credo che lei possa restare qui con noi, fino all'arrivo degli Alleati». Ero davvero molto stanco, stavo male in piedi ed ero anche molto sovraeccitato a causa della febbre. Riuscii a dirle cose che già perfettamente sapeva: che nascondere un disertore avrebbe potuto comportare, per lei e per la sua famiglia, conseguenze terribili. Mi rispose che suo marito era prigioniero in Germania, che non era tornato a casa perché non aveva voluto aderire alla repubblica di Mussolini e che io ero stato uno scolaro di suo marito. Non dette altre spiegazioni e aggiunse: «Vado un momento di là a parlare con i miei genitori».

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