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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2012 alle ore 16:14.

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Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno scarso rapporto critico con la storia. Quella ridondanza rischia di incrementare la sacralizzazione del passato e l'irrilevanza degli eventi terribili che accadono nel nostro presente. Si dirà: rispetto a tutte le altre date che ho elencato il «giorno della memoria» ha stabilito una sua "tradizione". Ci è riuscito in forza di una dimensione internazionale (il 27 gennaio non è una data che si riferisce a un fatto accaduto in quel giorno in Italia), ma anche in forza di una certa ambiguità.

Nel suo intervento al Parlamento italiano, il 27 gennaio 2010 il Premio Nobel Elie Wiesel ha sottolineato come porre il problema della memoria significhi come ricordare e non se ricordare. «A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della spiritualità – ha detto Wiesel – il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l'aggressore». È un ottimo spunto. Il cuore di questa considerazione, tuttavia, non sta nel l'uso della parola, bensì nella funzione. Ovvero deve rispondere alla domanda: che ce ne facciamo della memoria?

Il senso comune fa coincidere il «giorno della memoria» con impegno contro l'oblio. È lodevole, ma a me pare che la premessa sia errata. Nessuno, né tra i carnefici, né tra gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente pensava o che fosse un merito (perciò l'ha tenuto bene a mente) o che non valesse la pena preoccuparsi (e l'ha collocato tra le cose viste, ma di secondaria importanza). Nel caso dei carnefici, sconfitto il nazismo, essendo iniziata dopo una stagione in cui bisognava nascondere le proprie emozioni e ciò che si era fatto, occorreva sviluppare una doppia memoria (chi si reinventa un passato da dire in pubblico deve sempre tenere a mente tutto ciò che dice, non può mai distrarsi). Nel caso di chi ha visto e non ha fatto niente perché quel problema rimane sullo sfondo rispetto ad altre cose che lo riguardavano e che ritiene ancora lo riguardino in misura rilevante.

Ma se «la memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro», l'operazione che connette e condiziona il futuro nasce non già dal ricordare ma dal disagio che la memoria procura. La memoria è lo strumento che consente di valutare "gap" tra sapere che cosa sia la verità e la giustizia e la consapevolezza che il proprio "io" ha mancato in qualche punto. Una questione che mentre si preoccupa di riappacificarci col passato, apre questioni laceranti con i fatti del nostro presente e interroga in forma drammatica il nostro agire. L'episodio più eclatante in senso tragico riguarda Srebrenica e, soprattutto, il disagio che l'Europa ha provato, facendo di tutto per non confrontarsi con ciò che quelle scene significavano se non dopo, a evento consumato, quando ormai negare non era più possibile.

Quando nel maggio del 2011 è stato catturato Ratko Mladic, molti, ricordando lo sterminio di Srebrenica del luglio 1995, hanno detto che Srebrenica ci aveva "rivelato" Auschwitz. Ne dubito. Noi di fronte a Srebrenica abbiamo scoperto un'altra cosa, ma non siamo in grado di dirlo perché dovremmo fare i conti con il disagio della memoria. Srebrenica 11 luglio 1995, è la dimostrazione che sapere che sta accadendo qualcosa, vederlo persino, non impedisce che quella cosa non solo sia possibile, ma che avvenga. E soprattutto abbiamo scoperto che dopo, noi, non i carnefici, siamo ancora in grado di vivere senza sentire la vergogna.

A Srebrenica, in breve noi abbiamo scoperto, ma non siamo disposti ancora a riconoscere, che non è vero che lo sterminio avviene perché nessuno lo sa e che se avessimo saputo, non sarebbe potuto avvenire. Ma che lo sterminio avviene, lo vediamo in diretta e complessivamente continuiamo a pensare che sono "fatti loro". Comunque che non ci riguarda. Srebrenica luglio 1995, uno sterminio che è avvenuto non mentre tutti eravamo in vacanza, ma in un giorno infrasettimanale (per la cronaca era martedì), a poca distanza di qui, costituisce un evento ineludibile per riflettere sul senso della memoria e sulla sua funzione. Non era la prima volta. Quindici mesi prima era già avvenuto in Rwanda. Anche allora era prevalso il silenzio.

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