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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 08:14.

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Solo chi si accinge alla stesura del catalogo generale di un museo sa a che cumulo di difficoltà va incontro, non ultima la contrizione di non poter cogliere fior da fiore dalla massa di opere che, di norma, si dispongono. Per natura si sarebbe abituati a scartare quelle che per ragioni d'infimo livello o di pessima conservazione vengono accantonate un po' come dei rifiuti, ma un catalogo generale simili licenze non le ammette. Infatti è il risultato di un rastrellamento a tappeto di dipinti o sculture o di suppellettili, voluto al fine di garantire un'inesorabile completezza. Per tale puntiglio, determinato anche ma non solo da motivi di salvaguardia dei materiali, i pochi cataloghi generali seguono lo schema degli inventari e la schedatura presenta caratteri essenziali; più rari sono invece quelli che si prefiggono approfondimenti critici e filologici, volti alla ricostruzione dei dati d'archivio, alla precisazione delle provenienze, alla ricapitolazione dei restauri, degli spostamenti, della fortuna critica, e – gran finale – delle attribuzioni. La fase attributiva è tra le meno aride, ma anche tra le più esposte agli assalti dei tiratori scelti, vale a dire di coloro che, in materia d'attribuzioni, ambiscono a scoccare l'unico, veridico giudizio.
Il preambolo è necessario per ricordare il primo dei due volumi del catalogo generale della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia (edizioni Marsilio) appena pubblicato. La pinacoteca è una delle maggiori tra le minori d'Italia; contiene circa ottocento dipinti dal XII al XVIII secolo, esclusi quelli del XIX, con molti capolavori, ed è la sola, tra le minori, ad avanzare la prerogativa di possedere ben due quadri di Raffaello che si aggiungono al folto gruppo di dipinti dei grandi protagonisti della scuola bresciana del Cinquecento, Savoldo, Moretto, Romanino, e a un altrettanto cospicuo insieme di tele di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, che pur non essendo originario di Brescia, nella città lombarda lavorò assiduamente per un'aristocrazia e una ricca borghesia che, con le loro raccolte, specialmente nell'Ottocento, ma anche in tempi recenti, contribuirono a incrementare il nucleo iniziale. Questo fu lasciato nel 1844 dal conte Paolo Tosio, collezionista colto e poliedrico nei suoi interessi che spaziavano dall'arte rinascimentale all'archeologia.
Che fosse colto lo possiamo affermare alla luce delle notizie emerse dallo scandaglio dei documenti d'archivio e delle opere comprese in questo primo volume del catalogo, dedicato alla pittura del Sei e del Settecento. Il tomo, di quasi cinquecento pagine, esce a pinacoteca chiusa da anni. Riguardo alla sua riapertura giungono proprio ora notizie intermittenti, ma la più concreta è che tutti i dipinti ivi ancora conservati nei depositi stanno traslocando, il che significa che gli spazi vengono definitivamente liberati per i lavori di ristrutturazione. Comunque vada, nel gennaio del 2013 è assicurata la pubblicazione del secondo volume del catalogo, cui collaborano una trentina di studiosi di varia età e fama. Nel secondo tomo si raccoglieranno le opere pittoriche dal XII al XVI secolo, quattrocentocinquanta in tutto; assai meno sono quelle di dominio comune perché gran parte dei quadri non fu mai esposta. Ecco allora un altro merito dei cataloghi, che se non si può pretendere suppliscano al fatto che le opere non sono visibili, almeno rappresentano un'utile illustrazione.
Quando poi si riesce a mettere a segno qualche attribuzione che bilancia i casi irrisolti, il fervore di chi vi ha in armonia lavorato s'infiamma.
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