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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 08:14.

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In La parola ai giurati Sidney Lumet (su soggetto di Reginald Rose) descrive il progressivo e contrastato riorientarsi di un pensiero: soltanto tramite un tenace esercizio di scetticismo (che trova nello sguardo risolutamente inerme di Henry Fonda una sintesi perfetta), dodici giurati passano dalla certezza quasi unanime della colpevolezza di un imputato per omicidio fino alla sua assoluzione.
Nel romanzo di Fontana, a incarnare il senso di questa obiezione a ciò che appare talmente ovvio da risultare indiscutibile – l'implicazione di Khaled, un immigrato tunisino, in un'aggressione – è Elena Vicenzi, una giornalista free lance che propone a Doni un'altra ricostruzione dei fatti.
Scriveva Emily Dickinson: «Non lo sai che la parola no è la parola più selvaggia che affidiamo al Linguaggio?».
In Per legge superiore la parola che seduce il mondo e lo sovverte non è la negazione netta (ovvero qualcosa che nella sua radicalità rischia di semplificare) bensì il ma. In questa congiunzione che limita e oppone si produce un colpo di reni, quel coincidere di esitazione e ripensamento che è in sé condizione di civiltà.
Elena Vicenzi è un ma. La sua vita quotidiana – giornalista free lance ma anche libraia part-time e ghost writer, dunque una persona che come tantissimi prova a galleggiare nell'arcipelago del lavoro contemporaneo – è fatta con la materia del dubbio. I suoi dialoghi con Doni – tra i più belli del libro – sono rivelatori di una condizione della contemporaneità, qualcosa di incandescente con cui è difficile confrontarsi. Se infatti Elena, dall'alto del suo presente frantumato, vuole vincolare Doni a un «fattore di coscienza», dunque a un continuo farsi carico delle storture del mondo, dal canto suo il sostituto procuratore chiarisce che nessuno può sottrarsi alla propria vulnerabilità etica. In altri termini, tra ciò che consideriamo giusto e ciò che di giusto riusciamo a fare esiste uno scarto che è oggi la misura delle nostre contraddizioni.
Gli escamotage disponibili sono diversi: abbandonarsi a una complessiva moratoria morale rifugiandosi nella logica del «lo fanno tutti», «È così dappertutto», oppure affidarsi alla strategia involuta – e italianissima – del «male minore» (ancora Arendt: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male»).
Ma esiste una terza via.
Nel romanzo di Fontana, come un contrappunto, torna il riferimento al Testamento che Doni sta scrivendo. Non tanto una questione notarile, quanto la descrizione di una visione del mondo in cui si concentrano dubbi profondamente umani. Questo regolamento di conti con la propria storia non può che venire di continuo emendato e riscritto, come se il senso della giustizia non potesse che essere una scrittura in costante divenire, un succedersi dialettico di decifrazioni dell'esistente e di nuovi tentativi di codificazione. Un tendere verso. Nel telaio in rovina dell'amministrazione della giustizia è essenziale ostinarsi a pensare che la possibilità di riparare un torto sia un fuori scena decisivo, l'allusione a qualcosa che deve esserci ma non sempre è raggiungibile. La giustizia – questo il fattore di coscienza che Per legge superiore ci mette a disposizione – è un continuo indispensabile presentimento.
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Giorgio Fontana, Per legge superiore, Sellerio, Palermo, pagg. 256, € 13,00

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