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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2012 alle ore 19:41.

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Tonino Guerra (LaPresse)Tonino Guerra (LaPresse)

Un giorno, forse lo ricorderai, parlammo di un contadino della val Marecchia che si chiamava Eliseo, aveva un'ottantina d'anni e finiva il giorno, immancabilmente, nel camposanto sopra Pennabilli, con due cipressi a guardia di un cancelletto un po' sbilenco. Una sera lo vide venire dal vialetto centrale, aspettò che uscisse e cominciò a parlargli. Dopo avere girovagato tra le cose di quaggiù e di lassù, fermatosi l'argomento sul dopo la morte, alla domanda di Tonino, «Ma il Padreterno, Eliseo, c'è o non c'è?», Eliseo se ne uscì con un disarmante pezzo di bravura, rispettoso insieme della ragione e della fede: «Cosa vuole! Se le dico che c'è, così tutto d'un pezzo, mi sembra una bugia; ma se le dico che non c'è mi sembra una bugia ancora più grande». E noi, di fronte a quella chirurgica distinzione interiore – perché era meno, ma anche più, di un dubbio qualunque – riflettemmo che di Dio possono parlare, quasi con la stessa gravità, sia Pascal sia Eliseo.

Gli raccontai che Federico, una volta, mi aveva detto: «Ma non sei curioso di vedere come va a finire?» e Tonino, ogni tanto, mi chiedeva se avesse aggiunto qualcos'altro. A Mosca – dove Lora, la figura centrale del più complesso e favoloso percorso del nostro poeta, con premura, ostinatezza ed entusiasmo aveva mobilitato il miglior cinema russo - presentammo In morte di Federico Fellini, che avevo girato per la Tv. In quell'occasione il "poeta di Santarcangelo" mi disse: «Federico ha ragione, giri, vai, ritorni, parli o stai zitto, ma poi ti adagi, con una piccola viltà, nella celebre frase secondo la quale, facendo l'ultima tara all'immaginazione, Pascal azzardò questa ipotesi straordinaria: "chi cerca ha già trovato"». Per l'inchiesta televisiva Credere, non credere, del periodo in cui la Rai era anche un servizio pubblico, lo provocai sui problemi ultimi. «Camminando nella mia valle» rispose «spesso sosto davanti ai piccoli rettangoli d'erba dove si trovano delle croci arrugginite, senza nome. Mi sembra il punto giusto della morte. Sono contrario alle fotografie, alle statue, a tutta la messinscena di cimiteri senza nessuna poesia. Nei nostri cimiteri della valle la morte è presente in modo più totale e dolce, è un respiro che resta nell'aria, un volo. Ed è un rapporto col silenzio, e anche con la dimenticanza».

Finché confiderà: "Ho avuto sempre una gran voglia non di sicurezze speciali, ma di visitare il tempo, perché ha dentro tutto quello che mi stupisce, e che amo senza capirne bene la ragione. Questa è una modernità che pensa solo ai numeri e ai consumi. E per realizzare i suoi primati dimentica le ricchezze più grandi, a cominciare dalla bellezza". Quando l'animo geme anche nelle valli più in pace è tempo di temere. Tonino Guerra, da taluni chiamato "il poeta dell'ottimismo", a chi stoltamente lo riprovava rispose: «Che cosa volete che spetti ai poeti se non anche l'arduo dovere della speranza? E' tempo di ragionare anche sulla incorruttibile bellezza di ciò che, per poco che sia, siamo in grado di salvare con le nostre mani».

Il giorno in cui compì 75 anni, circondato dai sindaci della vallata, spaesato dai fiori che gli arrivavano da ogni parte, oltre che dai messaggi speditigli da mezzo mondo, Tonino prese la parola per lanciare, inatteso, un monito a chi distrugge i "borghi", cioè interrompe il legame con le voci, i colori, i suoni, i respiri del tempo trascorso. La gente, voleva dire, ha il diritto di salvare la sua memoria. Lo guardavo mentre additava i paesi cresciuti sulle creste incorrotte, l'apparire delle prime ferite di cemento, le insegne al neon, le finestre fuori ordinanza, orlate dall'alluminio anodizzato, qua e là l'offesa della plastica. E il "borgo" era lì che festeggiava il suo cantore corrucciato un po' per rabbia e molto per amore.

Voglio ricordarti così, Tonino, come quella volta che salutandoci salii in macchina dove avevi voluto che trovassi, in dono, una formella di ceramica con queste tue parole: "Quando in autunno / c'erano gli alberi nudi / una sera è arrivata / una nuvola di uccelli / stanchissimi / che si sono fermati sui rami. / Pareva fossero tornate le foglie, a dondolare al vento". «Attaccala a un ramo, non a un muro, ma fuori, dove gira sempre un po' d'aria», mi disse, «com'è la vita». Grazie della tua. La piazza è colma di gente che ti ha amato anche da lontano. Forse sapeva che tu credevi, in assoluto, al privilegio di essere nati. A patto, aggiungevi, che poi si viva non per esistere, ma per vivere insieme.

La piazza è circondata da manifesti in cui, sotto il tuo viso, è stata riprodotta la tua temeraria, quasi indicibile speranza: "Vincerà la bellezza". Avevi una certezza: che tutto quanto può essere vero è, per ciò stesso, possibile. Va cercato; non c'è, solo se non lo cerchi, se non speri di trovarlo. Elias Canetti, che tu amavi, aveva scritto, ricordo, entusiasmandoti: «Certe speranze, quelle pure, quelle che nutriamo non per noi stessi, quelle il cui adempimento non deve tornare a nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri, che procedono dalla bontà innata della natura umana, poiché anche la bontà è innata, queste speranze di un giallo solare bisogna nutrirle, e difenderle, quand'anche non dovesse mai giungere l'istante in cui si compiano. Perché nessun inganno è altrettanto sacro, e da nessun altro inganno dipende a tal punto la nostra possibilità di non finire sconfitti».
"Credo anch'io in tutto ciò che suscita una speranza" commentasti. Ecco perché questo mattino dolente e sereno, severo e assolato, ti somiglia. E non sembra neppure un addio.

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